mercoledì 26 agosto 2009

9. Repubblicanesimo (la Quarta via)

Per Machiavelli i governi sono o principati (monarchie) o repubbliche. La repubblica è dunque l’opposto della monarchia. I repubblicani si oppongono al governo in cui uno solo assuma il potere per diritto di nascita o divino (il re) o per il diritto della forza (despota, tiranno). Essi vogliono invece un governo realizzato con la partecipazione di molti, un governo che nasca dal basso e sia regolato da leggi che rispecchino la volontà dei cittadini. Tutto qui.
Ma se la Repubblica è l’opposto di governo autocratico, ciò non vuol dire che è necessariamente un governo democratico. Che cos’è dunque precisamente la Repubblica? Si possono distinguere almeno due modi di intenderla: uno è quello degli antichi, a partire da Cicerone, l’altro quello dei moderni, a partire dalla proclamazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. In ogni caso, si tratta di un modello politico che non rientra nella classica tripartizione delle forme di governo (monarchia, oligarchia, democrazia), ma rappresenta una «quarta via», che risulta “dalla fusione e dal moderato temperamento delle prime tre” (Rep. I,29). Oggi per Repubblica intendiamo una forma non monarchica di governo, che garantisce in varia misura la libertà, l’eguaglianza e la partecipazione, sia pure indiretta, di un gran numero di cittadini al potere politico.

9.1. La Repubblica degli antichi
Secondo alcuni, le più antiche Repubbliche risalgono alle confederazioni delle tribù israelite nel XIII sec. a.C.. Repubbliche sono anche le poleis greche, Cartagine nei tre secoli prima della sua caduta, Roma per cinque secoli, i comuni e le repubbliche marinare nel medioevo, e la Svizzera a partire dal 1291. Tuttavia, il primo ideologo della r. è Platone, anche se è con Roma che quest’idea trova pieno compimento. I romani chiamano «repubblica» lo Stato che si instaura dopo la cacciata dei Re, uno Stato che appartiene al popolo ed è una «cosa della collettività», una res pubblica appunto. Ma che cosa è il popolo? Secondo Cicerone per popolo si devono intendere solo le comunità di uomini che condividono la stessa idea di giustizia e gli stessi interessi (Rep. I, 25), che parlano la stessa lingua, che rispettano le stesse tradizioni, che praticano gli stessi culti, che osservano le stesse leggi. Chi comanda in una Repubblica? I migliori, risponde Cicerone, secondo le indicazioni del popolo. “Un popolo libero sceglierà da sé gli uomini cui affidarsi, e, se desidera la propria salvezza, li sceglierà tra i migliori” (Rep. I, 34) “perché la natura comporta questo, che non soltanto i sommi per virtù e animo governino i più deboli, ma che anche costoro vogliano obbedire ai sommi” (Rep. I, 34). I migliori governeranno nel rispetto della legge, che non sono essi a creare. Il quadro è quello di un’aristocrazia ad elezione popolare. Cicerone vede nella r. il superamento delle tre classiche forme di governo descritte da Aristotele. E infatti:
nei regimi monarchici la massa dei cittadini è esclusa dall’esercizio dei diritti politici e dal governo della cosa pubblica; i governi aristocratici, d’altra parte, sopprimono quasi del tutto la libertà, perché privano il popolo di una effettiva partecipazione alle deliberazioni pubbliche e al potere politico; nelle democrazie, infine, dove tutti i poteri sono esercitati dal popolo, l’eguaglianza stessa dei diritti politici è di per se stessa ingiusta, perché non ammette distinzioni secondo i meriti individuali (Rep. I, 27).

In tempi più recenti, l’idea di Repubblica di Cicerone è condivisa da Marsilio da Padova, Machiavelli, Montesquieu e Rousseau, seppure con importanti differenze. In particolare, Rousseau richiama l’attenzione sulle leggi: “Io chiamo repubblica ogni Stato retto da leggi, qualunque sia la sua forma di amministrazione” (Contratto sociale, II, 6), mentre indica nella DD la forma ideale (ma non realizzabile) di governo.

9.2. La Repubblica dei contemporanei
Fino all’epoca delle grandi rivoluzioni moderne, per Repubblica s’intende uno Stato governato da un signore e/o da un’assemblea di cittadini nel rispetto di leggi emanate con il consenso di molti, e si tratta della forma più «democratica» di governo concepibile, anche se ancora il termine «democrazia» non è entrato nell’uso corrente.
Ora, nel periodo seguente alle Rivoluzioni si vanno affermando i princìpi di sovranità popolare e si vanno riscoprendo i valori della democrazia, ma, dal momento che la partecipazione assembleare e l’espressione del consenso risultano inimmaginabili in un grande Stato, ecco che si comincia a pensare alla «rappresentanza». La democrazia rappresentativa viene considerata più idonea di quella diretta ad amministrare un grande Stato, com’è quello francese, o una pluralità di Stati, com’è la Federazione americana. Di fatto, a seconda che ad esercitare il potere sia una ristretta élite eletta con suffragio censitario, o un corpo di rappresentanti più ampio eletto a suffragio universale, la Repubblica si distingue in aristocratica o democratica, oligarchica o popolare, autoritaria o libertaria.
Grazie al repubblicanesimo contemporaneo, sono tramontate molte monarchie, sono stati aboliti i diritti feudali e la schiavitù, affermati i princìpi di tolleranza religiosa, di libertà di culto, di rappresentanza politica, di suffragio universale, di sovranità popolare, e via dicendo.

9.3. Il pensiero repubblicano
Oggi, l’idea di Repubblica democratica si associa a quella delle libertà, dei diritti, della legge, della costituzione, della divisione dei poteri, del suffragio, del referendum, della sovranità popolare, dell’uguaglianza, dell’autogoverno, del federalismo e di tutti i principali valori democratici. Nella sua forma ideale la Repubblica dovrebbe essere una DD. In pratica però, questa forma ideale viene di solito liquidata come se si trattasse di un’utopia. “La repubblica è una forma ideale di Stato che si fonda sulla virtù dei cittadini e sull’amor di patria […], è uno Stato ideale che non esiste da nessuna parte” (Bobbio, Viroli 2001: 5).
Anche i repubblicani tengono in gran conto i princìpi di libertà e di uguaglianza, ma su tutto domina la legge. A differenza dei liberali, i repubblicani non vedono la legge come impedimento, ma come unica garanzia degli altri diritti. I vincoli della legge liberano il cittadino dal dominio personale di altri e costituiscono un baluardo in difesa della libertà individuale. L’importanza delle leggi era stata colta già dagli antichi greci, di cui abbiamo parlato, ma anche dai romani. Se Livio, infatti, nota che, dopo la cacciata dei re, a Roma le leggi sono diventate più potenti degli uomini (Ab urbe condita II 1,1), secondo Cicerone il popolo romano può dirsi libero perché non obbedisce ad altri che alle leggi: “siamo quindi tutti servi delle leggi per poter essere liberi” (Pro Cluentio, 146). In un sistema repubblicano, le leggi sono dunque necessarie, così com’è necessario il freno che esse pongono ai cittadini, e svolgono la loro funzione anche se fossero ingiuste. I repubblicani però insistono sul fatto che solo una legge giusta può salvaguardare i diritti dei cittadini. “Per i repubblicani il bene comune più importante è la giustizia, perché solo nella città giusta gli individui non sono costretti a servire la volontà di altri uomini e possono vivere liberi” (VIROLI 1999: 53).
I repubblicani differiscono dai liberali anche rispetto all’idea di uguaglianza. “L’uguaglianza repubblicana non comprende solo l’uguaglianza dei diritti civili e politici, ma afferma l’esigenza di garantire a tutti i cittadini le condizioni sociali, economiche e culturali che consentano a ciascuno di vivere la propria vita con la dignità e il rispetto di sé che sono propri della vita civile” (VIROLI 1999: 54). Allo scopo di salvaguardare questi diritti, secondo i repubblicani è bene che lo Stato intervenga tutte le volte che certe condizioni fisiologiche, come l’infanzia o la vecchiaia, tare ereditarie, malattie, infortuni o il semplice caso si pongono come ostacoli alla libertà dell’individuo. Secondo i repubblicani, scopo dello Stato è quello di garantire la dignità dei cittadini, anche dei meno favoriti dalla sorte. Anche gli sfortunati, insomma, devono essere messi in condizione di godere dei diritti civili e di vivere entro i limiti della dignità umana, ed è per questo che serve l’intervento attivo dello Stato.
Come ammonisce Rousseau, in una repubblica degna di tale nome nessuno dovrebbe essere così povero da essere costretto a vendersi e nessuno così ricco da poter comprare un suo simile, ed è per questa ragione che i repubblicani si dichiarano contrari all’assistenzialismo. “La carità pubblica (e privata), per quanto lodevole, è incompatibile con la vita civile perché offende la dignità di chi la riceve” (VIROLI 1999: 56).

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