mercoledì 26 agosto 2009

2. Assolutismo

Chiamiamo a. un regime politico in cui chi governa non deve dare conto a nessuno di ciò che fa e non deve sottrarsi a nessuna legge. Il potere assoluto non ha limiti e, di solito, è accentrato nelle mani di una sola persona. “Nessuno può essere sovrano in uno Stato se non uno solo; se ci sono due o tre o più persone che esercitano la sovranità, nessuno in realtà è sovrano” (Bodin 1997: 478). Il concetto di potere indiviso nelle mani di una sola persona è sostenuto da pensatori come il già citato Bodin, Hobbes e il vescovo francese Bossuet, i quali, pur con sfumature diverse, giungono alla stessa conclusione: tutti gli individui umani, non hanno mai avuto (o hanno rinunciato, o sono stati deprivati) un proprio potere sovrano, tutti eccetto uno, il monarca, che, come un dio, ha il diritto di comandare, senza essere contrastato.
Al re appartiene il potere sovrano e solo a lui spetta il diritto di emanare le leggi. Ora, da Ulpiano a Bodin, si è ritenuto inconcepibile che chi fa le leggi debba anche sottostare alle stesse. Il principe, insomma, non è tenuto ad osservare le leggi. È come affermare che chi fa il codice della strada non debba sottostarvi, chi elabora le norme del galateo sia esentato dal doverle osservare, chi enuncia i valori morali possa regolarmente trasgredirli.

2.1. Lo Stato patrimoniale
Dal’antichità all’età moderna, è molto diffusa la concezione che riconosce al principe il diritto di gestire lo Stato come se fosse una sua proprietà privata e che faceva dire a Luigi XIV «lo Stato sono io». L’unico dovere del re è quello di conservare, difendere e migliorare la sua proprietà, e, per far ciò, egli ha la facoltà di servirsi dei sudditi, nei confronti dei quali, è semplicemente tenuto a comportarsi secondo la propria coscienza. Solo nel caso in cui il re non si dimostri in grado di proteggere lo Stato potrà essere abbandonato e deposto, a favore di un altro signore (BUSSI 2002: 163-78).

2.2. La dinamica del potere nello Stato assoluto
Dall’inizio della storia e fino al XIX secolo hanno prevalso nettamente i governi autocratici (o monocratici o assoluti), i quali trattano i sudditi alla stessa stregua di bambini. Così come i bambini, a causa della loro immaturità, non sono autonomi né idonei ad assumersi responsabilità o ad esercitare il discernimento morale e, di conseguenza, hanno bisogno di figure paterne e tutelari, allo stesso modo i sudditi hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro e li governi. Si tratta di solito di un monarca, che è chiamato variamente (re, faraone, cesare, imperatore, principe, zar, gran sacerdote) e che si ritiene dotato di qualità straordinarie e diverso da ogni altro, perché chiamato a quel ruolo da un dio, oppure perché è egli stesso un dio e fatto oggetto di culto. Il sovrano è tutto e tutto gli appartiene, compresi i cittadini, che diventano servitori e sudditi. Nei governi autocratici l’unico interesse che veramente conta è quello dello Stato o, il che è la stessa cosa, del sovrano stesso. Gli interessi dei singoli cittadini sono subordinati o non contano affatto. La società autocratica è una e monolitica e coincide con la figura del sovrano. Tutti ricorderanno la celebre frase di Luigi XIV: «Lo Stato sono io».
Nei governi monocratici la Ragion di Stato coincide con i supremi interessi del sovrano e, quando si profila la minaccia di un nemico che avanza, in realtà quel pericolo non è avvertito da tutti allo stesso modo. Solo il monarca, infatti, ha interesse a battersi per difendere il suo potere e, dietro di lui, tutte le famiglie blasonate e i ricchi proprietari. Dopo una guerra fra Stati, il vincitore solitamente elimina il rivale diretto e si insedia al suo posto, prende per sé quello che prima era di quello, confisca i beni dei ricchi, che distribuisce ai membri del proprio seguito, e non mostra interesse alcuno ad uccidere i contadini che lavoravano la terra a livello di sussistenza e versavano al vecchio padrone ogni eccedenza, anzi quelle braccia gli fanno comodo, perché adesso lavoreranno per il nuovo padrone.
Dopo una guerra, persa o vinta che sia, per le famiglie che vivono a livello di sussistenza le cose non cambiano. Ed è per questo che contadini solitamente non hanno il senso dello Stato, non hanno motivazioni per impugnare le armi: lo fanno solo perché costretti dai loro capi. Da un avvicendamento al vertice tutto quello che può cambiare per il contadino è quello di cambiare padrone. Alta è invece la posta in palio per il sovrano e per le famiglie possidenti. In caso di sconfitta, infatti, essi rischiano di perdere lo status sociale, gli averi, la libertà e la vita.

2.3. I fautori
L’a. ha avuto molti estimatori, a partire dall’antichità e fino all’età moderna. Ne ricordo alcuni.
Per Jean Bodin, la monarchia è il regime più naturale che vi sia e, infatti: la famiglia non ha che un capo, il cielo non ha che un sole, il cielo non ha che un Dio. Bisogna che coloro che sono sovrani – osserva il filosofo francese – non siano in alcun modo soggetti ai comandi altrui e che possano dare leggi ai sudditi ed abrogare o annullare le leggi inutili per farne altre. Per questo la legge dice che il principe è sciolto (absolutus) dall’autorità delle leggi. Per definizione, “il sovrano è solo chi non dipende in niente da altri; in niente dal Papa, in niente dall’Imperatore; che dipende completamente da se stesso; che non è legato da alcun vincolo di soggezione personale; il cui potere non è né temporaneo, né delegato, né responsabile verso alcun altro potere sulla terra” (CHEVALLIER 1968: 63). Il sovrano è tenuto a sottomettersi unicamente alle leggi di natura, che sono un riflesso della ragione divina. “Il principe sovrano non riconosce niente di superiore a sé fuorché Dio” (Bodin 1988: 176). Secondo Bodin, “il punto più alto della maestà sovrana sta nel dar legge ai sudditi in generale e in particolare, senza bisogno del loro consenso” (1964: 374). “Poiché sulla terra non vi è niente di più grande dei principi sovrani, che vengono solo dopo Dio, che li ha stabiliti quali suoi luogotenenti, per comandare agli altri uomini, bisogna avere nella più alta considerazione la loro dignità, rispettare e riverire la loro maestà in piena obbedienza, nutrir sentimenti di grande rispetto per loro, parlare di loro con estremo riguardo. Chi disprezza il suo principe sovrano disprezza Dio, del quale esso è l’immagine in terra” (Bodin 1964: 477). Bodin conclude che “la monarchia pura assoluta è sempre preferibile alle altre forme di Stato, e senza confronto il migliore fra tutti” (1997: 483). Non solo: fra le monarchie bisogna preferire quella ereditaria. “Così come la monarchia legittima è sempre preferibile alle altre forme di Stato, tra le monarchie quella che deriva per diritto di successione ai discendenti maschi più prossimi che portano il nome, e non è soggetta a divisione, è assai più lodevole e più sicura che non le altre” (Bodin 1997: 494). In molti passaggi il pensiero di Bodin riflette quello di Aristotele, con la conseguenza di sembrare tradizionalista ad oltranza. Questo vale, per esempio, per la sua posizione maschilista. “Tutti i popoli son d’accordo che la nobiltà, lo splendore, la dignità deriva dal marito e non dalla moglie” (1997: 551). Questo principio si applica anche alla monarchia ereditaria e, qualora la linea maschile dovesse estinguersi, sarebbe meglio istituire una nuova dinastia con metodo elettivo piuttosto che affidare il regno ad una donna (1997: 543).
Al contrario di Aristotele, che vedeva nell’uomo un animale naturalmente socievole, per Hobbes, lo stato di natura è uno stato di guerra perpetua fra individui sovrani, per uscire dal quale gli uomini stabiliscono tra loro un contratto, in base al quale trasferiscono la propria personale sovranità ad un «terzo» che, da parte sua, è assolutamente estraneo al contratto e non è legato da alcun obbligo. Con questa rinuncia, che è definitiva e irrevocabile, gli uomini si spogliano volontariamente della loro autonomia di giudizio morale e s’impegnano a “tenere per buono e giusto quello che il sovrano ordina, per cattivo e ingiusto quello che egli proibisce” (CHEVALLIER 1968: 84). Per Hobbes, sarebbe una grave calamità che gli uomini pretendessero di giudicare con la propria coscienza, anziché in base alla legge. “Erigendosi a giudici del bene e del male, gli uomini tornano allo stato di natura, ed alla sua spaventosa anarchia” (CHEVALLIER 1968: 89). La concezione hobbesiana ricorda la concezione del peccato originale e la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre: la differenza risiede solo nel fatto che, i nostri progenitori vengono puniti da un’autorità superiore, mentre, attraverso la stipula del contratto, gli uomini si puniscono da se medesimi.
Seppur con argomentazioni diverse, Bossuet approda alle stesse conclusioni del filosofo inglese. Partendo da una posizione di tipo aristotelico (Dio ha creato gli uomini naturalmente socievoli), il vescovo francese sposa l’idea di Hobbes (gli uomini sono soggetti sovrani che lottano l’un contro l’altro), precisando, tuttavia, che ciò è la conseguenza del peccato originale. Da qui la necessità di un governo. Per Bossuet, il governo migliore e più naturale è la monarchia assoluta. Il re agisce in vece di Dio e deve essere rispettato come Dio in terra. Egli è tenuto a fare il bene pubblico, e di ciò dovrà rendere conto a Dio. Il popolo, da parte sua, è chiamato all’obbedienza. “Una sola eccezione alla completa obbedienza dovuta al principe: quando egli comanda contro Dio” (CHEVALLIER 1968: 109).

2.4 I critici
Tra i critici dell’assolutismo un posto di rilevo va attribuito certamente a Locke. “E che! I sudditi dovrebbero sopportare tutto pazientemente, con il pretesto che i sovrani derivano immediatamente da Dio la loro autorità e che Dio solo ha diritto di chieder loro conto della loro condotta!” (CHEVALLIER 1968: 121). Questa dottrina del diritto divino è considerata dal filosofo inglese un vero e proprio veleno della politica, al quale occorre urgentemente trovare un antidoto. A differenza di Hobbes, Locke ritiene che, nello stato di natura, pur essendo sovrani, i singoli uomini non stanno poi così male, anche se vedono le loro libertà e le loro proprietà mal garantite dallo stato di natura. Se preferiscono lo stato di società è per stare meglio e per essere meglio tutelati nei loro diritti. Dandosi un governo, tuttavia, gli uomini non rinunciano al proprio stato originario e conservano la propria sovranità. Il potere politico si basa, allora, sul consenso (ecco l’antidoto).
Un altro illustre critico dell’assolutismo è Montesquieu, il quale pone al di sopra di ogni società le Leggi e lo spirito da cui esse emanano. Il legislatore è, in teoria, il popolo intero, anche se in pratica esso non può svolgere questa funzione e deve delegarla alla nobiltà o ad un corpo di rappresentanti, mentre al re spetta il potere esecutivo, cioè l’applicazione delle Leggi stesse.
Anche Rousseau ha espresso parole di critica appassionata nei confronti dell’assolutismo, ma lo ha fatto in un modo che ha generato non poche perplessità, se non vere e proprie controcritiche (cfr. POPPER 1981). Per Rousseau, la libertà consiste nel piegarsi alla Volontà generale. Questo termine non designa un concetto democratico. Non si riferisce, infatti, alla volontà di tutti o della maggioranza, bensì all’interesse generale, in opposizione agli interessi particolari delle persone. Sovrano è il popolo, in quanto portatore della volontà generale. Sottomettersi alle Leggi, che promanano dalla Volontà generale, significa essere liberi. Quella che traspare dagli scritti di Rousseau è una democrazia apparente. Si parla di libertà, di legge e, soprattutto, di volontà generale. In realtà queste espressioni non riconoscono al popolo il potere legislativo, né la libertà di decidere autonomamente. Il popolo di Rousseau rimane subordinato alla volontà generale, che non è, come si potrebbe pensare, la volontà della totalità dei cittadini o, semplicemente, della maggioranza di essi. Essa è soltanto un concetto astratto, il prodotto della ragione pura. Il popolo rimane schiacciato sotto il peso di questa volontà impersonale, di questa Legge fatta da nessuno. L’intento di Rousseau era di liberare l’uomo dal giogo di leggi fatte da altri uomini. Ma, facendo ciò, egli aveva, di fatto, sacrificato, lo spirito democratico. A Rousseau non interessa se il popolo approva o respinge una legge, gli interessa soltanto se quella legge è conforme o meno alla volontà generale. In un certo senso, Rousseau realizza un sistema assolutistico non meno rigido di quello sostenuto da Bodin, Hobbes e Bossuet, anche se diversamente fondato.

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