mercoledì 26 agosto 2009

18. Teocrazia

Anche se non è una forma di governo, la religione condiziona la politica, a tal punto che, in un libro di politica, non si può ignorarla. Io qui mi limito a prendere in considerazione il cattolicesimo e lo faccio prendendo a prestito il pensiero di Giovanni Paolo II.

18.1. Inettitudine dell’individuo
Secondo il pontefice, l’uomo non è capace di discernere il bene e il male. Infatti, “il potere di decidere del bene e del male non appartiene all’uomo, ma a Dio solo” (GIOVANNI PAOLO II 1993: 35). L’uomo è soltanto libero di obbedire a Dio, e lo deve fare attraverso la Chiesa. “Quando gli uomini pongono alla Chiesa le domande della loro coscienza, quando nella Chiesa i fedeli si rivolgono ai Vescovi e ai Pastori, nella risposta della Chiesa c’è la voce di Gesù Cristo, la voce della verità circa il bene e il male. Nella parola pronunciata dalla Chiesa risuona, nell’intimo delle persone, la voce di Dio” (GIOVANNI PAOLO II 1993: 117).
Secondo la chiesa, non vale il punto di vista personale e nemmeno l’impegno di approfondire la verità da parte dei singoli, i quali, per definizione, non potranno giungere alla verità. E non vale nemmeno il principio della maggioranza. La legge morale, infatti, “non viene minimamente stabilita seguendo le regole e le forme di una deliberazione di tipo democratico” (GIOVANNI PAOLO II 1993: 113).

18.2. Dittatura per libera scelta
Che tipo di governo può emergere dai suddetti presupposti ideologici? Certamente non un governo democratico.
A titolo d’esempio, vediamo come sviluppa il suo pensiero politico un religioso cattolico, che risponde al nome di R.J. Neuhaus (1994). Dopo aver espresso qualche apprezzamento nei confronti della democrazia e del principio di maggioranza, lo studioso osserva che non sempre ciò che approva la maggioranza corrisponde necessariamente alla verità (p. 90). Ci si potrebbe aspettare, a questo punto, che Neuhaus scopra l’individuo, come essere pensante libero e autonomo, e dica che lui è il vero motore del progresso umano. E invece si scopre che il religioso vuole niente meno che liberarsi “dalle sbarre dell’io autonomo” e consegnare l’individuo alla chiesa e al papa (p. 94-5). “Vincolando la propria fedeltà a qualcosa che è più grande di loro, i cattolici sanno di diventare qualcosa più di quel che sono. In altre parole, la libertà non è essere fedeli a se stessi, ma essere liberi nella verità” (p. 103). Rinunciare alla propria autonomia di pensiero: ecco l’aspirazione del cattolico!
Mi riterrei soddisfatto se Neuhaus ammettesse almeno questo: il buon cattolico rinuncia alla propria libertà per amore di Dio. E invece no: egli sottolinea l’importanza della libertà, giungendo ad affermare che “laddove la libertà non è assicurata, niente è al sicuro” (p. 166). Sta forse, il religioso, parlando di libertà di pensiero? Vuole, forse, dire che il cattolico è libero di lottare per ciò che egli ritenga, in coscienza, giusto e vero? No, affatto. Questa libertà non gli è concessa! L’unica libertà che gli viene concessa è quella di sottomettersi all’autorità religiosa e di farsi schiavo dell’istituzione ecclesiale. “La libertà è data all’uomo per rendere possibile la libera obbedienza alla verità e il libero donarsi all’amore” (p. 173). Questa profilata da Neuhaus è certamente la più feroce e oppressiva delle dittature, quella voluta per libera scelta: dalla dittatura imposta dall’esterno puoi, prima o poi, liberarti, ma dalla dittatura che tu stesso scegli chi ti potrà mai liberare?
Non c’è bisogno di leggere il libro di un cattolico: sai già dove va a parare. Qualunque sia l’argomentazione, la conclusione è sempre la stessa: la rinuncia a se stessi e alla propria libertà di pensiero. Il cattolico è uno che consegna il proprio cervello al papa, dicendo: a me non serve, gestiscilo tu. Egli non può essere convinto di nulla, perché deve sempre attenersi alla posizione del papa. Se un cattolico, per esempio, fosse profondamente convinto che Cristo approverebbe l’uso degli anticoncezionali, egli non potrebbe sostenere e diffondere questo suo pensiero fintantoché il papa dovesse rimanere di parere diverso. Se uno scienziato cattolico, dopo molti studi, venisse a scoprire una sostanza capace di rendere l’uomo più intelligente e altruista e priva di effetti negativi e volesse promuoverne l’impiego per rendere migliore il mondo, credendo così di ubbidire al comando di Cristo “moltiplicate il vostro talento”, egli non si comporterebbe da buon cattolico se non ottenesse l’approvazione del papa.
La chiesa non riconosce la libertà di pensiero. Ma allora a che serve al cattolico di impegnarsi, allo scopo di progredire, se poi ciò che egli ritenga essere vero e giusto deve passare al vaglio del papa? A cosa gli serve il cervello? Perché Dio lo avrebbe dotato di pensiero libero e autonomo? Lo studio costa sacrificio. Tanto vale starsene tranquillo e lasciarsi guidare. La dottrina della chiesa induce il cittadino ad un atteggiamento obbediente e sottomesso e, così facendo, diventa antitetica ad ogni forma di governo democratico e funzionale a governi autoritari e paternalistici, che però devono essere il prodotto di una «libera» scelta della persona.

18.3. Vantaggi e limiti
Il principale vantaggio di un regime teocratico è quello di escludere ogni dubbio dall’orizzonte personale e sociale.
Il principale svantaggio può essere ravvisato nella negazione della libertà di pensiero e di coscienza delle persone.

17. Federalismo

In senso politico, il termine Federalismo (dal latino foedus: patto, contratto, alleanza) indica un «contratto» fra Stati sovrani, che rinunciano ad una parte della propria sovranità e si associano in modo da formare un unico organismo politico, allo scopo, dichiarato o meno, di incrementare la propria forza e garantirsi condizioni di pace interna e favorevoli opportunità in campo economico, ma anche di garantire che i diritti dei cittadini siano rispettati nei singoli Stati. Secondo Montesquieu, la federazione consente di sommare i vantaggi della repubblica con quelli della monarchia, ovverosia i vantaggi di uno Stato di diritto con quello di uno Stato grande e forte. “Composta di piccole repubbliche, essa [la Federazione] gode della bontà del governo interno di ciascuna; rispetto all’esterno poi, possiede, grazie alla forza dell’associazione, tutti i vantaggi delle grandi monarchie” (Leggi, IX,1).
Da parte loro, i cittadini partecipano alla scelta del governo federale, secondo il principio «un cittadino, un voto». Alla fine, come scrive Elazar, “il federalismo implica il collegamento di individui, gruppi e comunità politiche in una unione durevole ma limitata, in modo tale da permettere l’energico perseguimento di obiettivi comuni pur mantenendo le integrità di tutte le parti” (1998: 6-7). Si tratta, per usare le parole di K.C. Weare, di un “sistema di divisione dei poteri che permette al governo centrale e a quelli regionali di essere, ciascuno nella sua sfera, coordinati e indipendenti” (1997: 26).
Come primo caso noto di federazione nella storia viene indicato solitamente quello dell’antico Israele, mentre l’esempio più importante di federalismo medievale è rappresentato dalla “confederazione di repubbliche di montagne svizzere, costituita nel 1291 e finalizzata al mutuo soccorso nella difesa dell’indipendenza” (ELAZAR 1998: 102]. Tuttavia, il f. è giunto a maturità con la costituzione del sistema federale americano e si è espanso continuamente negli ultimi due secoli, tanto che oggi viene visto come una valida alternativa al nazionalismo.
Secondo A. Lijphart, “si possono identificare cinque caratteristiche fondamentali del federalismo: una costituzione scritta, il bicameralismo, il diritto delle unità componenti ad essere associate nel procedimento di emendamento della costituzione federale, ma di poter modificare la loro costituzione unilateralmente, la rappresentanza uguale o non proporzionale delle unità componenti più piccole nella camera federale e il governo decentrato” (1988: 182).

17.1. La costituzione
Perché ci possa essere una convivenza ordinata e pacifica fra Stati sovrani è necessario che essi siano dotati di forza equivalente, stabiliscano patti chiari e definiscano in modo preciso le prerogative di ciascuno. Da ciò l’importanza di una costituzione scritta, la quale, di norma, attribuisce al governo federale il controllo della politica estera, il diritto di dichiarare guerra e quello di coniare la moneta, mentre lascia ai singoli Stati più o meno ampia libertà di legiferare in tutti gli altri settori di pubblico interesse, come la sanità, il fisco, la scuola e i servizi sociali, con l’unica eccezione della facoltà di recedere dalla federazione (questo diritto, infatti, viene negato).

17.2. Federazioni e Confederazioni
Diverso è il modello confederativo: nella confederazione i titolari di diritti-doveri non sono gli individui, ma gli Stati, i quali godono di condizioni di uguaglianza, sancita dal principio «uno Stato, un voto». La partecipazione di uno Stato alla confederazione è volontaria e revocabile e nessuno può interferire negli affari interni di un altro Stato. “Neppure in casi eclatanti di violazione di diritti umani fondamentali, come nel caso di genocidio, la confederazione ha facoltà di intervenire negli affari interni di uno Stato. I diritti degli individui non trovano altra protezione in una confederazione che non quella accordata loro dai singoli Stati” (ARCHIBUGI, BEETHAM, 1998: 92-3).

17.3. Le condizioni del federalismo
In teoria è possibile una federazione di Stati retti da dittature, ma in pratica la federazione è più congeniale a sistemi repubblicani. Difficilmente, infatti, un dittatore accetterebbe di limitare il proprio potere. In teoria è anche possibile un accordo federale tra Stati che differiscono in quanto a forza militare e risorse economiche, in pratica però l’accordo è tanto più probabile quanto meno marcate sono queste differenze perché, abitualmente uno Stato molto più forte di un altro tende a dominarlo piuttosto che a considerarlo un partner di pari livello. Di fatto, un organismo politico di tipo federale risulta appetibile solo a quegli Stati che godono di una condizione economica relativamente prospera e non hanno nemici pericolosi da cui guardarsi (in genere si tratta di paesi in cui operano sistemi democratici di tipo liberale), i quali intendono così garantirsi condizioni di pace e consolidare le proprie posizioni. Al contrario, in caso di crisi economica o di grave minaccia esterna, prevale l’esigenza di costituire un governo accentrato. “La guerra e la crisi economica richiedono un controllo unitario se si vuole che i loro problemi vengano effettivamente risolti, ed impongono degli sforzi finanziari che solo i governi centrali sono in grado di sopportare” (WHEARE 1997: 375).
Come i liberali, anche i federalisti vedono “la libertà come più importante rispetto alla lotta per l’uguaglianza assoluta” e “sono disposti a sacrificare un certo grado di uguaglianza per il bene della libertà” (in POZZOLI 1997: 300). “Dal momento che il potere non è riunito in un solo centro, nello Stato federale esistono le condizioni più favorevoli per l’autogoverno locale” (LEVI 1998: 379). Su queste basi potrebbe affermarsi e prosperare la DD. Il federalismo è dunque compatibile tanto con la DR quanto con la DD, anche se oggi esistono solo modelli DR.
Secondo Elazar, repubblicanesimo e costituzionalismo sono le colonne portanti del federalismo. “La volontà di federarsi implica proprio questo: il desiderio di costruire una comunità politica composita sulla base di principi repubblicani, che si concretizza in un’apposita cornice costituzionale e che presenta come elemento fondamentale la condivisione del potere” (ELAZAR 1998: 160].

17.4. Le ragioni del federalismo
Sulla terra coesistono circa tremila gruppi etnici e tribali legati alla propria identità e alle proprie tradizioni. Il rischio che tra questi gruppi esplodano conflitti violenti è elevato e, per scongiurarlo, nel corso della storia si è fatto ricorso generalmente all’uso della forza. “Da sempre gli uomini hanno difeso la loro indipendenza, e hanno garantito la loro sicurezza, con le armi” (ALBERTINI 1999: 183). Ma, a partire dalla guerra di indipendenza americana, si è scoperto che c’è un altro modo per far convivere pacificamente le diverse popolazioni che occupano il pianeta, il federalismo, il quale, da quando le armi nucleari hanno reso estremamente pericoloso per tutti il costume di appellarsi alla guerra come arbitro ultimo nelle controversie fra i gruppi umani, “risponde al bisogno dei popoli e delle comunità politiche di unirsi per perseguire fini comuni, restando tuttavia separati per conservare le rispettive integrità” (ELAZAR 1998: 28]. Si tratta, in altri termini, di un compromesso tra esigenze di autogoverno regionale ed esigenze di governo centrale, tra esigenze di mantenere i propri valori locali ed esigenze di far parte di una comunità tanto ampia da soddisfare al meglio i bisogni dell’individuo.

17.5. Modelli di federalismo
“Esistono tre modelli principali di federalismo moderno: il sistema americano, svizzero e canadese” (ELAZAR 1998: 35], e sono tutti sistemi DR a due livelli di cittadinanza e di rappresentanza, nel senso che “ogni individuo è nello stesso tempo cittadino del proprio Stato e della federazione” (LEVI 1997: 90) e contribuisce ad eleggere i rispettivi governi. A seconda che operi a livello di uno o più Stati, il f. può essere distinto in nazionale e sovranazionale, ed è anche possibile immaginare un f. mondiale. Questo è il sogno di Kant. “I popoli, in quanto Stati, possono essere giudicati come singoli uomini […] e ciascuno di essi può e deve esigere dall’altro di entrare con lui in una costituzione simile a quella civile, nella quale a ciascuno sia garantito il suo diritto. Questo costituirebbe una federazione di popoli, che tuttavia non dovrebbe essere uno Stato di popoli” (2002: 60). In pratica, il filosofo prussiano pensa ad una Federazione mondiale, da creare sulla base di un «contratto», come quello stipulato dai singoli individui nello stato di natura. Sulla stessa linea si muove Proudhon, il quale considera il Federalismo infranazionale il primo passo per raggiungere quello sopranazionale.

17.6. Federalismo e giustizia
Il f. mondiale richiede l’istituzione di un ordine giuridico internazionale, che regoli i rapporti fra gli Stati impedendo loro di muoversi guerra, ma non un qualsiasi ordine giuridico, bensì un ordine sufficientemente giusto da poter essere condiviso. Infatti, se l’ordine fosse percepito come ingiusto da qualcuno degli Stati membri, esso potrebbe sussistere solo come ordine imposto e sarebbe facile prevedere la nascita di focolai di tensione, che potrebbero mettere in pericolo lo stato di pace. Da una pace imposta da una legge ingiusta potrebbe originare un sistema sociale invivibile. Da ciò deriva l’esigenza di accompagnare il f. con una qualche forma di giustizia, come unica garanzia di stabilità politica. Fino ad oggi il f. mondiale costituisce un sogno non realizzato. Esistono, tuttavia, due importanti casi di f. sovranazionale: gli Usa e l’Ue.

17.7. Il modello americano
La nascita di una comunità politica può avvenire in tre diversi modi: primo, per conquista armata, con esito in regimi autoritari; secondo, per evoluzione spontanea (dalla famiglia, alla tribù, al villaggio, alla città, allo Stato), con esito in regimi oligarchici; terzo, per patto, cioè in seguito all’accordo volontario fra le parti, con esito in regime democratico-federale (ELAZAR 1998: 4-5). La federazione degli Stati Uniti d’America appartiene a quest’ultimo gruppo e rappresenta il primo esempio di un’unione di Stati repubblicani avvenuta non per opera di un processo storico o della forza, ma a seguito di un libero accordo fra popoli. Per questo Hamilton potrà esclamare con commosso compiacimento: “Riuscire a varare in un momento di assoluta pace, col consenso volontario di tutto il popolo, la costituzione è un prodigio all’attuazione del quale guardo con tremante ansietà” (HAMILTON, MADISON, JAY 1997: 693).
All’epoca in cui le colonie inglesi d’America lottano per la propria indipendenza, sono due le forme di governo ritenute in grado di amministrare uno Stato grande e potente: la monarchia, dove tutti i poteri sono accentrati nella persona del sovrano, e la repubblica, dove il potere è esercitato da rappresentanti eletti dal popolo. E la democrazia? Nel Settecento l’unica forma concepibile di Democrazia è quella diretta. “In democrazia – scrive Madison – il popolo si raduna e governa direttamente” (1997: 215). Ma questa forma di governo, in accordo con quanto già espresso da Aristotele e Rousseau, è ritenuta adatta solo per piccole comunità, che però, per il fatto di essere piccole, non possono competere con le grandi monarchie e le grandi repubbliche e, pertanto, non garantiscono una sufficiente sicurezza ai suoi cittadini in caso di aggressione.
Ebbene, dopo la proclamazione d’indipendenza (4.7.1776), gli americani ritengono più consono al proprio spirito libero il modello repubblicano, ma si chiedono se devono limitarsi a costituire tredici repubbliche sovrane oppure se non sia preferibile realizzare un unico Stato federale, ancora più grande e potente. Alla fine, fatto unico nella storia dell’uomo moderno, gli americani scelgono il compromesso federale e ne scrivono la Costituzione. L’istituto della Costituzione costituisce una novità storica e rompe una lunga tradizione, secondo la quale la fondazione di uno Stato è frutto del caso o di un atto di forza. Grazie alla Costituzione, uno Stato o una federazione di Stati può originare dalla volontà liberamente espressa da alcuni e approvata democraticamente con consenso del popolo, senza nulla lasciare al caso e senza spargimento di sangue. Anche l’impianto federale della Costituzione rappresenta un fatto di novità, essendo il federalismo un orientamento estraneo alla cultura europea (la Svizzera è un’eccezione).
Che tipo di governo vogliono costruire gli americani con quella Costituzione? Tanto per cominciare, essi vogliono trovare una soluzione alternativa alla monarchia, che all’epoca costituisce la forma di governo di maggior successo, ma che si oppone al loro spirito libero. Scartata la monarchia, rimane la repubblica, ossia la forma di governo dove il popolo “si riunisce e amministra attraverso i propri rappresentanti e delegati”. Se però i Tredici Stati si unissero in federazione potrebbero “conciliare i vantaggi di un regime monarchico con quelli di un regime repubblicano” (1997: 186). Nello Stato federale, infatti, si coniugano i vantaggi della monarchia (governo centralizzato, forte e sicuro) e quelli della repubblica liberale (diritti democratici). Ma che non si tratta di una vera democrazia è dimostrato dal fatto che sono esclusi dalla cittadinanza i neri, gli indiani e le donne (il diritto di voto verrà riconosciuto ai neri e agli indiani nel 1870 e alle donne nel 1920). L’obiettivo degli americani non è quello di realizzare una democrazia, bensì uno Stato il più liberale, il più esteso e il più potente possibile, una Repubblica federale insomma, che solo impropriamente viene chiamata democrazia.
Nella Costituzione americana non troviamo alcun riferimento all’individuo e ai suoi diritti, mentre si parla dei Governi, degli Stati, del Presidente e dei Poteri (esecutivo, legislativo, amministrativo e giudiziario). Insomma, vi troviamo una logica di gruppo, piuttosto che una logica individuale. “Negli Stati Uniti, il potere esecutivo è affidato ad una sola persona, il Presidente della federazione. I ministri sono nominati dal Presidente e sono responsabili nei suoi confronti. Egli riunisce nelle sue mani i poteri di capo dello Stato e di capo del governo, risponde della propria azione non verso il potere legislativo, ma verso il popolo, che lo elegge e gli può confermare o revocare la propria fiducia ogni quattro anni” (LEVI 1997: 52). Il presidente guida anche la politica estera del paese, comanda le forze armate, nomina i pubblici funzionari e i giudici della Corte suprema. Il suo mandato dura quattro anni e può essere replicato una sola volta. Il Congresso non può sfiduciarlo, ma solo metterlo in stato di accusa (impeachment). Si tratta, in sostanza, di un sistema “a poteri separati e bilanciati” (BARBERA, FUSARO 1997: 58), il cui principale vantaggio è la stabilità, ma che non è esente da limiti. Un limite è che il popolo generalmente elegge il candidato più attraente e simpatico, che però non necessariamente è anche quello che possiede le doti migliori per governare; il secondo è che, se il presidente e il parlamento non sono disposti a cooperare, il sistema si blocca (BARBERA, FUSARO 1997: 62-3).
Il rapporto fra gli Stati non è di tipo gerarchico ed è regolato dalla Costituzione, che sta al di sopra di tutti i poteri, sia statali che federali, e il cui rispetto è garantito da una magistratura indipendente. Oltre la Costituzione c’è solo il popolo, l’unico al quale Hamilton attribuisce il potere di modificarla. “In sostanza, la sovranità appartiene al popolo federale, che la esercita attraverso diversi centri di potere” (LEVI 1997: 37). Quello che ne risulta, alla fine, è un “governo delle leggi e non degli uomini” (LEVI 1997: 47).
Alla fine, è bene riconoscerlo, il f. rappresenta quanto di più vicino alla democrazia esista, e per di più, con l’interessante prospettiva di un coinvolgimento planetario. “La democrazia federale ha reso possibile la formazione di un governo democratico di dimensioni continentali, che potenzialmente si può allargare a tutto il mondo” (LEVI L. 1997: 45).

17.8. Il Federalismo in Europa
Il modello americano esercita una forte attrazione nel Vecchio Continente, dove, insieme ai princìpi illuministi, finisce per rappresentare una sorta di miscela esplosiva, da cui trae origine l’Europa contemporanea. In Europa però il f. stenta ad affermarsi, mentre continua a prevalere la monarchia. A differenza dei secoli precedenti, tuttavia, non si tratta più di regimi autocratici, bensì di sistemi parlamentari con varie forme di diritto e di suffragio. In questa nuova temperie culturale c’è posto per l’istanza federalista, che vede prendere posizione Saint-Simon, Augustin Thierry, Kant, e altri, ma solo a livello di principio.
In Italia il dibattito politico sulla democrazia liberale e il federalismo si sviluppa solo dopo la caduta di Napoleone e dà vita ad una serie di movimenti antimonarchici, che inneggiano alle carte costituzionali, ai princìpi liberali e al federalismo. Tra i più appassionati sostenitori di un’Italia federale va ricordato Carlo Cattaneo (1801-69), che è un convinto sostenitore delle autonomie locali, come anche della creazione degli Stati Uniti di Europa. Ma le sue vedute risultano minoritarie. Cattaneo è considerato un perdente ed è costretto a vivere ai margini del potere politico, insieme ai pochi che ne condividono le idee, come Giuseppe Ferrari (1811-76), Giuseppe Mazzini (1805-72) e Carlo Pisacane (1818-57), che sono portatori di un pensiero di tipo socialista ed egualitario, laico, antispiritualistico e anticlericale. Anche Ferrari vuole un’Italia federalista e repubblicana, mentre Pisacane auspica l’abolizione di ogni gerarchia, di ogni autorità e di ogni proprietà e sogna una nazione costituita da tanti comuni amministrati democraticamente. Ma anche Ferrari e Pisacane sono dei perdenti, come pure tutti quelli che, dopo di loro, hanno continuato a propugnare il f., come Altiero Spinelli (1907-86).
Condannato (1927), a causa della sua fede comunista e il suo antifascismo prima a dieci anni di carcere e poi al confino, nel 1937, entrato in posizione critica anche con la politica dell’Urss, Spinelli viene espulso dal Pci e diviene fervente assertore del federalismo esuropeo, che lo terrà impegnato fino alla morte (cf. Graglia 2008). Nel 1941, mentre si trova al confino nell’isola di Ventotene, Spinelli scrive i Problemi delle federazione europea, in cui, insieme a Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, esprime la sua ferma volontà di realizzare concretamente gli Stati Uniti d’Europa. Il libro verrà pubblicato clandestinamente nel gennaio 1944 e passerà alla storia col nome di Manifesto di Ventotene. L’idea federalista di Spinelli nasce da una condizione di critica allo Stato-nazione e alla guerra, in un momento in cui una guerra totale sta sconvolgendo ogni vecchio equilibrio e impone una riorganizzazione degli Stati. “Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto” (p. 23). Spinelli vuole attuare in Europa un ordine internazionale “mediante un ordinamento federale, il quale, pur lasciando a ogni singolo stato la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale nel modo che meglio si adatta al grado e alle peculiarità della sua civiltà […], crei e amministri un corpo di leggi internazionali al quale tutti egualmente debbono essere sottoposti” (p. 60), determinando così il passaggio di sovranità dai singoli Stati allo Stato federale in modo irrevocabile. Spinelli pensa ad un’Europa che sorge unita dalle macerie di una guerra che vedesse perdente la Germania (p. 70-1), rompendo così con una secolare tradizione favorevole agli Stati nazionali. Per la verità, Spinelli pensa anche ad un’Europa socialista, in cui la proprietà privata sia “abolita, limitata, corretta” (p. 24) e sia garantito a tutti “un tenore di vita decente” (p. 26).
Oggi in Europa sono federali solo il Belgio, la Germania, la Spagna e la Svizzera, ma si va profilando un evento nuovo ed epocale: la stessa Europa si avvia verso un’organizzazione di tipo federale. “La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire” (ALBERTINI 1999: 140-1). Il federalismo dell’UE costituisce un elemento di novità nella storia e, infatti, mentre le prime federazioni costituiscono o una variante di unificazione nazionale (Svizzera) o il risultato di un movimento di liberazione da una dominazione coloniale (Stati Uniti, Canada e Australia), l’UE rappresenta il primo caso di superamento pacifico di nazioni storicamente consolidate, il prodotto della volontà di superare la lacerazione nazionalistica del genere umano.

17.9. Federalismo USA vs Repubblicanesimo italiano (da ZINCONE 1995)
L’Italia corre verso l’Europa, che, a sua volta, corre verso il modello degli Stati Uniti. Ma arriverà l’Italia a far suo il modello americano? A giudicare dalla sua storia, probabilmente no; è prevedibile, invece, un avvicinamento con una soluzione di compromesso.
Caratteri della democrazia americana / democrazia italiana

1. Federalismo e decentramento del potere / Statalismo e accentramento
2. Presidenzialismo / Parlamentarismo
3. Stato minimo, specie in economia / Pluripartitismo e consociativismo
4. Sistema elettorale maggioritario e bipartitismo / Sistema elettorale misto
5. Contrappesi al potere della maggioranza (Corte Suprema, partito di opposizione, mezzi di comunicazione di massa non sottoposti all’esecutivo) / Contrappesi al potere della maggioranza (Presidente della repubblica, partiti di opposizione)
6. Rilevante potere delle lobbies / Rilevante potere delle lobbies e del papato
7. Pubblica opinione favorevole alla democrazia / Pubblica opinione favorevole alla democrazia, ma con qualche nostalgia per un recente passato monarchico-dittatoriale.

17.10 Federalismo mondiale
Se si riuscirà a realizzare la Federazione Europea, non c’è ragione che non si riesca a fare altrettanto a livello mondiale. I fautori del federalismo mondiale temono che, finché ci sarà un solo Stato sovrano e armato, la pace nel mondo sarà in pericolo. Sono molti oggi a vedere nel federalismo mondiale il modo migliore per governare tutti i popoli della terra. Secondo Levi, per esempio, “dopo la città-Stato, intesa come l’istituzione che ha permesso di pacificare le tribù, e lo Stato nazione, che ha garantito la pace tra le città, la federazione costituisce la forma di organizzazione politica che consente di pacificare le nazioni e di unificare intere regioni del mondo e in prospettiva tutto il pianeta” (1998: 380). Lo stesso pensiero è sviluppato da M. Albertini. “La democrazia diretta – scrive lo studioso – fu il governo democratico degli uomini appartenenti all’ambito di una città [...]. La democrazia rappresentativa fu il governo democratico degli uomini appartenenti ad una nazione [...]. Il sistema federale [...] è il governo degli uomini appartenenti ad uno spazio supernazionale, e che può giungere fino a quello del mondo intero” (1999: 57). Secondo Albertini, la vocazione del federalismo è la conquista del mondo, perché “la democrazia federale non può funzionare stabilmente se non ha dimensioni mondiali” (1999: 58).
Daniele Archibugi parla di democrazia cosmopolitica: “un progetto estremamente ambizioso il cui obiettivo è il conseguimento di un ordine mondiale ispirato ai valori della legalità e della democrazia” (1998: 66). Egli è convinto che non può esserci democrazia locale senza democrazia globale. “La democrazia nazionale e la democrazia globale sono due facce della stessa medaglia, e senza il conseguimento di entrambe il viaggio verso la democrazia rischia di interrompersi tragicamente” (ARCHIBUGI, BEETHAM 1998: 86). Membri del sistema cosmopolita sono tanto gli Stati quanto i cittadini. L’esempio che più si avvicina al modello della democrazia cosmopolita è l’Unione Europea. Al suo interno operano due fondamentali princìpi: «uno Stato, un voto» e «un cittadino, un voto». È una democrazia di Stati e di cittadini.

17.11. Una questione aperta: la divisione del potere e il federalismo individualista
Gli Stati federati non sono ordinati in modo gerarchico, come avviene fra gli apparati di uno Stato unitario, ma dividono fra loro il potere: nessuno Stato concentra tutti i poteri nelle proprie mani, mentre a ciascuno è riconosciuta un’autonomia impositiva (federalismo fiscale) e amministrativa. La sussistenza della federazione si basa sulle norme costituzionali, che devono perciò essere scritte e rigide e devono avere un valore superiore a quello delle leggi ordinarie. Il federalismo non si oppone all’idea di Stato, ma solo a quella di potere centralizzato. Esso esige che il potere venga diviso. Ma diviso fra chi? È questo il punto.
Prendiamo, ad esempio, l’Italia. I federalisti dicono: “Non è bene che il potere rimanga concentrato a Roma; è bene che venga partecipato dalla periferia”. Ma che cos’è la periferia? Innanzitutto le regioni. Secondo il progetto federalista, ogni regione dovrebbe diventare un mini-stato sovrano, inserito in uno Stato più grande, che è l’Italia. Viene da chiedersi: “Perché la logica federalista non dovrebbe essere applicata anche all’interno di una singola regione?” Prendiamo la Sicilia. Perché il potere dovrebbe rimanere concentrato a Palermo, e non invece diviso fra le province? Poi però anche i comuni potrebbero osservare: “Perché non dovremmo partecipare anche noi al potere?” I comuni, tuttavia, non sono entità semplici: al loro interno possiamo riconoscere le circoscrizioni, le imprese produttive, le unità commerciali, i servizi, i condomini, le famiglie. C’è qualche ragione perché la logica federalista non debba essere applicata anche a queste realtà? Perché esse non potrebbero legittimamente richiedere il riconoscimento del diritto all’autonomia e all’autogoverno? E così, seguendo questo percorso, a cascata, si giunge al singolo individuo. Perché negare al singolo individuo il diritto a candidarsi come il più piccolo e fondamentale centro del potere politico?
A mio giudizio, l’unico federalismo credibile è quello che sia disposto a condurre i propri princìpi fino agli estremi limiti, quello cioè che non si accontenti di fermarsi, come aveva fatto Proudhon, al capo-famiglia, che pure è già da considerare un limite coraggioso, ma che voglia giungere fino all’individuo. Il federalismo ideale è quello che, coerentemente coi suoi principi di fondo, sia disposto a distribuire il potere a tutti i cittadini, in condizione di parità, ossia il federalismo individualista, il quale si basa sulla promozione indiscriminata e incondizionata dell’individuo, sul riconoscimento di alcuni fondamentali diritti individuali (pari opportunità, accesso paritario e illimitato ad ogni genere di informazione, facoltà di partecipare alla stesura dell’ordine del giorno) e sulla rappresentanza con mandato imperativo. Insomma, per essere coerente coi propri princìpi, il federalismo non può limitarsi al gruppo, ma deve estendere i diritti di cui si fa promotore fino all’estremo limite. Ma, a questo punto, che cosa sarebbe il federalismo se non una DD?
Il fatto è che, in pratica ci si guarda bene dall’estendere la logica federalista ai singoli individui e, abitualmente, ci si ferma alle regioni, anche se non si esclude la possibilità di includere le province e perfino i comuni, ma nessuno pensa che si possa andare oltre. Così facendo, il federalismo finisce col moltiplicare le istituzioni dotate di potere politico, dal momento che al potere centrale si aggiungono i poteri locali. In ogni caso i cittadini comuni rimangono esclusi dalla partecipazione politica e la società rimane comunque di tipo duale, con una classe dominante minoritaria e la maggioranza dei cittadini sottomessi, il cui unico potere riconosciuto è quello di eleggere liberamente i propri rappresentanti.

17.12. Un sistema per ricchi?
Chi ci guadagna in un siffatto ordinamento politico? Certamente gli uomini che hanno aspirazioni di potere: un sistema federale ne può accontentare un numero maggiore che qualsiasi altra forma di governo. Certo, i signori di Roma dovrebbero dividere il potere con quelli della periferia, ma in compenso la loro posizione risulterebbe più stabile. Globalmente considerato, il potere risulterà più esteso e livellato, ma anche più sicuro, sia a causa delle condizioni di pace garantite dal federalismo, sia perché tutti i più temibili concorrenti, avendo la propria fetta di potere, sono poco motivati ad agitare le acque. Semmai ci si potrebbe aspettare qualche rimpasto, qualche scambio di ruoli, ma la classe dominante rimarrebbe comunque ben salda al comando. Oltre agli uomini di potere, a guadagnarci col federalismo saranno i centri più ricchi di risorse, che potranno avere la meglio nella competizione con gli altri centri meno fortunati, e diventare sempre più ricchi. Non per niente il federalismo è caldeggiato prevalentemente dalle regioni più benestanti e dai personaggi medio-borghesi con ambizione di potere. Per la stessa ragione, il federalismo si sposa molto bene col capitalismo e prospera laddove sono diffusi i valori del libero mercato, del libero scambio, della libera competizione, della libera iniziativa, valori tipici del capitalismo, dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
E i cittadini? Per loro cambierà poco o nulla. Il potere non sarà mai nelle loro mani. Essi continueranno ad eleggere i propri rappresentanti con delega apparentemente soggetta a verifica, ma in realtà in bianco, e il loro voto sarà conteso a suon di spot pubblicitari e di campagne propagandistiche da parte di chi detiene il potere economico e controlla i mezzi di informazione di massa. Molti cittadini probabilmente capiranno il sottile gioco di cui sono vittime e si ritireranno dalla politica. Così a governare il Paese resteranno solo quanti hanno grossi interessi privati da difendere, che verranno sostenuti dalla massa di cittadini ignari di essere solo uno strumento. In pratica, il Paese sarebbe governato da potentissimi gruppi, società, compagnie e lobbies.
Anche se dovesse essere concessa ai cittadini la facoltà di prendere una qualche decisione attraverso il voto referendario, in realtà, fintantoché il potere sarà nelle mani dei rappresentanti, questi troveranno mille espedienti per impedire che prevalga la volontà del popolo. Così, il governo del Paese sarà appannaggio dei cittadini dalla classe media in su, i quali governeranno a proprio vantaggio, con la conseguenza che una larga fascia della popolazione dovrà confrontarsi quotidianamente con problemi di mera sopravvivenza, nel rispetto del tipico modello capitalista: chi è ricco diventa sempre più ricco, chi è povero sempre più povero.
Alla luce di quanto appena detto, possiamo distinguere due forme di federalismo. Il primo, che chiamiamo «individualista» o DD, vuole che tutti i cittadini siano sovrani, tutti partecipino in egual misura al potere politico, tutti abbiano pari opportunità, pari accesso all’informazione, pari controllo dell’ordine del giorno, e la rappresentanza sia solo con mandato imperativo. Esso è considerato utopico e, per questo, non trova riscontri pratici. Il secondo, che chiamiamo «statalista» o DR, rappresenta l’unica forma esistente di federalismo, ed è ad esso che facciamo riferimento quando non specifichiamo diversamente. Ebbene quali sono i pro e i contro del federalismo DR?

17.13. Vantaggi e svantaggi del Federalismo
Uno dei principali vantaggi del f. è quello di scongiurare i pericoli legati al nazionalismo. “I federalisti si distinguono da tutte le altre correnti politiche, siano esse democratiche o antidemocratiche, in ciò: che essi considerano come un nemico da abbattere quella stessa cosa che tutti gli altri considerano, ciascuno a modo suo, come un idolo da venerare o da servire: lo Stato nazionale” (in POZZOLI 1997: 287). “Inteso correttamente, il federalismo si contrappone allo stato nazionale centralizzato e reificato, che è il principale prodotto del nazionalismo dell’epoca moderna” (ELAZAR 1998: 105). È proprio su questo aspetto del f. che si fonda il tentativo di realizzare un’Europa unita. “La novità dell’esperimento federativo europeo consiste nella ricerca di una risposta istituzionale alla crisi dello Stato sovrano” (LEVI 1998: 379).
Un altro importante vantaggio del f. è legato al principio «l’unione fa la forza». “Tutti i popoli che hanno dovuto sostenere grandi guerre sono stati indotti, anche involontariamente, ad aumentare la forza del governo; quelli che non hanno potuto farlo, sono stati conquistati” (Tocqueville 1996: 164-5). La Federazione, invece, rende più forte il singolo Stato, senza che esso incrementi il suo armamento.
Secondo J. Maritain, il f. “appare come l’unica via aperta per la soppressione della guerra” (messaggio pronunciato alla radio di New York il 25.3.1944 (in POZZOLI 1997: 107). In realtà, solo un f. mondiale potrebbe conseguire questo ambizioso traguardo, che è particolarmente appetibile in un’epoca, come la nostra, in cui le armi sono più terrificanti, il loro costo più oneroso, il pericolo di conflitti maggiore che nel passato. Ebbene, oggi, un f. mondiale dei popoli, che non sia una semplice confederazione di Stati sovrani come la Società delle Nazioni o l’Onu, potrebbe effettivamente conseguire cessazione delle guerre tra Stati sovrani e garantire una pace universale durevole.
Ma i vantaggi non si fermano qui e, poiché una loro trattazione richiederebbe uno spazio eccessivo, mi limito a menzionarne i seguenti:
• La sovranità di «gruppo» sostituisce quella di «Stato».
• Molti «gruppi» partecipano al potere (poliarchia).
• Si realizza un ottimo compromesso tra l’esigenza di conservare i vantaggi di un grande Stato ed l’esigenza dei singoli gruppi di tutelare la propria identità.
• Si allarga la classe sociale media, fatta di cittadini proprietari e benestanti, che hanno a cuore l’istruzione, l’autonomia e la partecipazione al potere.
• Si favorisce il cammino verso una democrazia allargata ad un gran numero di cittadini.
• C’è interesse a mantenere condizioni di pace.
• Si dà impulso alla libera iniziativa e alla libera competizione, con conseguente crescita economica del Paese.
• Il capitalismo e l’economia di mercato trovano le condizioni ideali per prosperare.
Tra gli svantaggi del f. vorrei ricordare i seguenti:
• Il federalismo risponde ad una logica di potere, il potere dei ricchi.
• C’è poco interesse per la promozione dell’individuo, ma si perseguono logiche di gruppo.
• Al rispetto della volontà dei cittadini si antepone la ragion di Stato.
• L’individuo è ridotto al ruolo di strumento, a semplice soggetto di consumo e produttore di voti.
• Al rispetto del principio di maggioranza (se per tale s’intende il 51% degli aventi diritto al voto) si antepone quello della stabilità del governo. Esempio: se va a votare il 30% dell’elettorato, diventa legge ciò che decide la maggioranza di questo 30%. Al federalismo non interessa ciò che pensa il 70% che non va a votare, ma solo che vi sia una legge.
• Poiché, solitamente, vanno a votare coloro che hanno interessi da difendere, si finisce per istaurare una dittatura della classe media, che possiamo chiamare poliarchia o oligarchia allargata, ma non democrazia.
• La ricchezza non è distribuita secondo i meriti individuali, ma continuerà a sussistere una differenziazione di status sociale per nascita.
• La pace federalista non è avversione per la guerra, ma amore dello statu quo da parte dei ricchi, i quali, a differenza dei poveri, non hanno alcun interesse a cambiare il sistema.

16. Il Corporativismo

Teoria politica mirante ad organizzare la collettività secondo i gruppi di interesse che la compongono, le cosiddette corporazioni, che svolgono una funzione intermedia tra cittadini e Stato. La società corporativa si fonda “sulle famiglie, sulle imprese, sulle categorie professionali, sui partiti, sulle organizzazioni spirituali, morali e culturali” (RASI 1973: 182). A differenza dei paesi capitalistici, dove i diversi soggetti di interesse concorrono spontaneamente e liberamente, la società corporativa è rigidamente centralizzata e controllata dallo Stato.
La massima espressione storica del c. è costituita dalla società medievale, che è basata sull’autonomia semisovrana delle categorie, sulla trasmissione per via familiare dell’attività professionale e su un rapporto sociale di tipo gerarchico, dove non sono previsti conflitti di classe.
L’ideale corporativo esalta la tradizione e l’autorità costituita ed per ciò che si è affermato anche presso i regimi fascisti, ed è stato accettato dalla chiesa, che lo ha sostenuto nelle encicliche sociali.

16.1 Vantaggi e limiti
I vantaggi e i limiti del c. sono gli stessi degli Stati centralizzati, in cui prevale la logica del gruppo, mentre le libertà della persona appaiono più o meno sacrificate.

15. Anarco-capitalismo

Dall’unione del capitalismo con l’anarchismo prende origine una particolare corrente politica, detta Anarco-capitalismo, il cui esponente maggiormente rappresentativo è considerato Murray Rothbard.

15.1. Prima di tutto l’individuo
Al centro del pensiero libertario di Rothbard c’è la concezione individualistica che vede in ciascun uomo un essere dotato di volontà, desideri, ideali e progetti, ma anche dell’intelligenza necessaria per raggiungere i suoi scopi, che sono in parte innati e in maggior misura appresi e ordinati gerarchicamente secondo il valore loro attribuito dal soggetto. Sotto questo aspetto, si deve intendere che ciascuno è padrone di se stesso.

15.2. La proprietà privata
Ma come fa concretamente l’individuo a dare soddisfazione ai suoi desideri? Per rispondere a questa domanda Rothbard ricorre alla figura di un Robinson Crusoe, ossia di un unico abitante umano di un’isola. Non avendo competitori, Crusoe è in teoria il padrone incontrastato dell’isola e di tutto ciò che essa contiene. Tuttavia, di fatto egli possiede solo ciò che “usa e trasforma”. Lo stesso avverrebbe, secondo Rothbard, se il nostro personaggio sbarcasse in un’isola già abitata. Anche in questo caso, infatti, “la sua vera proprietà – il suo reale controllo sui beni materiali – si estenderebbe in effetti solo a quelli prodotti per mezzo del suo lavoro” (ROTHBARD 2000: 66).
Ne risulta quella che può essere considerata la legge fondamentale del pensiero libertario: “Ognuno ha un assoluto diritto al controllo e alla proprietà del suo proprio corpo e delle risorse naturali inutilizzate che egli scopre e trasforma” (ROTHBARD 2000: 106). Chiunque violi tale legge è un criminale. Ecco il senso della proprietà privata secondo Rothbard. Ognuno è proprietario di qualche cosa (del proprio corpo, dei propri beni, delle proprie idee, della propria reputazione) ed è libero di farne l’uso che vuole, e a nessuno è dato di interferire nella sfera della proprietà privata del singolo individuo, nemmeno lo Stato.

15.3. Lo Stato
Se risaliamo lungo la sua storia, scopriamo che lo Stato “ha avuto origine per mezzo di un processo di violenza, conquista e sfruttamento” (ROTHBARD 2000: 362) e violando i diritti individuali. Ne consegue che lo Stato è un ente negativo, che non ha il diritto di entrare nella vita privata dei cittadini, di pretendere il loro assenso elettorale e di imporre delle tasse. Il cittadino che vota per dovere è come il soldato che è costretto a partecipare alla battaglia con l’unica alternativa tra l’uccidere o l’essere ucciso. Anche se il soldato si adopera per sterminare i nemici, ciò non vuol dire che egli abbia scelto liberamente di partecipare alla battaglia. Allo stesso modo, nemmeno il voto del cittadino è da ritenere un atto libero, e pertanto esso non è in grado di legittimare lo Stato ad interferire sulla proprietà privata di alcuno e ad imporre un carico fiscale.
Rothbard definisce lo Stato come un’organizzazione criminale che si procura le entrate (la tassazione) per mezzo della coercizione fisica e il monopolio della violenza. “Lo Stato, dunque, è un’organizzazione criminale coercitiva che si nutre per mezzo di un sistema di tassazione-furto su vasta scala e la fa franca organizzando il sostegno della maggioranza […] assicurandosi l’alleanza di un gruppo di intellettuali capaci di plasmare l’opinione popolare, ricompensati con le briciole del suo potere e con il vil metallo” (ROTHBARD 2000: 277). A giudizio di Rothbard, in una società veramente libera lo Stato non dovrebbe esistere.

15.4. Vantaggi e limiti
Porsi dal punto di vista della persona può essere ritenuto un fatto positivo.
Viceversa, escludere dall’orizzonte politico lo Stato potrebbe essere un grave errore, perché non tiene conto delle persone sfortunate, le quali, in assenza di un adeguato apporto della solidarietà sociale, non potrebbero portare a termine il proprio progetto di vita.

14. Capitalismo

Il capitalismo è un complesso sistema economico-finanziario che oggi domina sul mondo. Essendo capace di esercitare una determinante influenza sulla politica e sugli stili di vita delle persone, risulta pressoché impossibile restare indifferenti di fronte ad esso. E, in effetti, oggi i popoli delle Terra si possono dividere in due parti, a seconda di come si rapportano col c.

14.1. Definizione e generalità
Il termine c. non venne mai usato da Marx, ma fu introdotto da Werner Sombart nel 1902 con la sua opera Il capitalismo moderno, per indicare un sistema produttivo dominato “dal principio del profitto e dal razionalismo economico” (SOMBART 1967: 165).
“Il capitalismo differisce fondamentalmente dal sistema economico feudale-artigianale, nel quale le stesse persone sono lavoratori e allo stesso tempo posseggono i mezzi di produzione” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 29). L’artigiano è uno che lavora in autonomia, possiede la sua bottega e i suoi arnesi e usa la propria testa e le proprie mani per cercare lavoro, produrre e vendere. Il capitalista invece possiede i mezzi di produzione e affida ad altri l’esecuzione manuale delle mansioni. “A differenza quindi del lavoro artigianale, il capitalismo distingue il lavoro direttivo da quello esecutivo” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 39).
Quando si parla di c. si deve pensare a tante cose (proprietà privata dei mezzi di produzione, Stato minimo, città, moneta, borghesia, classe imprenditoriale, lavoro salariato, mercato, libera concorrenza, profitto) e perciò non deve stupire che non sia facile definirlo in poche parole.
“Per capitalismo – scrive H. Kelsen – intendiamo un sistema economico caratterizzato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla libera iniziativa e dalla competizione: un sistema economico, quindi, che presuppone la libertà economica, cioè l’assenza di interferenze dirette dal governo nella vita economica” (1995: 335).
“La società capitalista scarta tutto ciò che non può servire al profitto” (CREAGH in SCHIAVONE 1997: 221) e rifiuta tutto ciò che non rientra nel quadro di un freddo calcolo razionale di utilità. “Il capitalismo così come spinge alla produzione fine a se stessa spinge anche al consumo fine a se stesso” (BOOKCHIN 1995: 116).
L’etica capitalistica è un’etica di mercato, i cui principali principi ispiratori sono la produzione e il consumo e il cui fine ultimo è il massimo profitto nel più breve tempo possibile. Il c. si basa sulla massima libertà d’iniziativa e vuole che lo Stato interferisca il meno possibile negli affari dei cittadini, perché ritiene che il mercato libero non solo sia in grado di organizzarsi da sé, in modo spontaneo, ma sia anche in grado di produrre una crescita ininterrotta della società. “«È permesso tutto quello che non è espressamente vietato», questo è il motto del diritto economico moderno” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 30). “Non è mai successo prima che la società abbia affidato quasi completamente al mercato il compito di determinare i propri valori e i propri modelli di comportamento” (THUROW 1997: 90).
“La libertà economica è un requisito essenziale per la libertà politica” (FRIEDMAN 1981: 8). Partendo da questo presupposto irrinunciabile, il c. costruisce il proprio sistema politico, che si muove in una prospettiva borghese e ruota intorno ai principi della produzione e del profitto. “La società capitalista scarta tutto ciò che non può servire al profitto” (Greagh 1997: 221).

14.2. Capitalismo e Democrazia
Il c. è un sistema economico che può trovare realizzazione in diversi ordinamenti politici, siano essi di tipo democratico o autocratico. Sta di fatto che tutte le democrazie contemporanee sono di tipo capitalistico. Va notato però che si tratta immancabilmente di sistemi DR e che non esiste nessun esempio di coabitazione di c. e DD. Con ciò non intendo affermare che il c. sia incompatibile con la DD. Penso tuttavia che la DD potrebbe tollerare un tipo di c. assai diverso rispetto a quello a noi noto, un c. che sia basato non più sui rapporti direttore/esecutore o imprenditore/salariato, ma sulla partecipazione responsabile di tutti, ciascuno secondo le proprie capacità e competenze; non più sulla pubblicità commerciale e sul consumismo, ma sull’informazione e sulla conoscenza.
Il fatto che la DR sembra essere il sistema politico maggiormente congeniale e funzionale per l’economia capitalistica non significa che il c. sia democratico. Per un capitalista il governo ideale è quello che è in grado di garantire le condizioni di sicurezza, interna e internazionale, tali che ciascun imprenditore, finanziere o speculatore possa liberamente perseguire le proprie iniziative economiche e realizzare profitti senza limiti prestabiliti e in piena sicurezza. Alla domanda «chi deve comandare?» il capitalista si dichiarerebbe indifferente sul «chi», purché si tratti di un governo debole nei confronti degli imprenditori e forte nei confronti delle organizzazioni sindacali e di tutti quei movimenti che vogliono limitare la libertà di mercato o attentare alla proprietà privata.
Partendo da queste condizioni, si può ben comprendere perché nessun sistema capitalistico può essere veramente democratico. “La democrazia capitalistica permetterà libertà di parola, di associazione, anche di elezioni, fino a che nessuna di queste libertà è presumibile possa minacciare il capitalismo; non appena la minaccia diverrà seria, tutta la forza della legge verrà messa in azione per reprimere il pericolo” (LASKI 1976: 222).

14.3. Capitalismo e Stato
“Il mercato, e soltanto il mercato, è sovrano” (THUROW 1997: 3). Ma non è così. “Se lasciati a se stessi, invece di muovere verso un equilibrio, i mercati finanziari possono arrivare agli estremi e alla fine crollare” (Soros 2002: 105). La presenza e l’intervento dello Stato devono dunque ritenersi fondamentali. Questo è quanto ci insegna l’esperienza degli ultimi decenni, che il mercato lasciato a se stesso è instabile e pericoloso, genera ricchezza, ma anche profonde crisi economico-finanziarie, l’ultima delle quali è in corso mentre scrivo.
Un capitalismo senza regole (deregulation) fa crescere a dismisura i consumi fino a superare le capacità produttive del paese e a richiedere l’attuazione di una politica d’indebitamento. Ciò è quanto è avvenuto negli Usa e ben si sposa con l’incontenibile tendenza della Cina a conquistare nuovi mercati. “Gli americani consumano più di quanto producono, consentendo ai cinesi di produrre più di quanto consumino” (Ruffolo 2008: 231).
Se il c. potesse fare a meno dello Stato se ne libererebbe volentieri, affinché, alla fine, rimanga il libero mercato sovrano. Ma il c. ha bisogno dello Stato e, in pratica, non esiste un c. allo stato puro, come non esiste un mercato totalmente libero e del tutto esente da condizionamenti politici. Così, da più parti oggi si tende e dare per scontato il fatto che, da solo, il c. non sia in grado di “esaurire tutta la gamma delle motivazioni e aspirazioni umane” e che abbia bisogno di essere in qualche modo corretto dall’intervento politico dello Stato (cfr. TURNER 2002: 414-9). “Il capitalismo liberista può essere una forza benefica per la prosperità, le libertà politiche e le prospettive di pace, ma solo se è accompagnato da atti politici e da politiche concrete che elettori e governanti sono liberi di adottare o rigettare. E tra le politiche che occorre scegliere vi sono quelle specificamente mirate a ridurre l’insicurezza e le disuguaglianze che il capitalismo stesso indubbiamente crea” (TURNER 2002: 436).

14.4. I due modelli di capitalismo
Secondo M. Albert, possiamo distinguere due principali modelli di c., quello anglo-americano e quello europeo, i quali, dopo la caduta del comunismo, si contendono il dominio del pianeta. Il primo privilegia le società finanziarie, i mercati azionari e la speculazione, che, come padroni invisibili, condizionano le imprese, senza coinvolgimento diretto e senza partecipazione responsabile al processo produttivo. Il denaro degli azionisti decide la sorte delle aziende, che vengono considerate alla stessa stregua di una qualsiasi merce, e si pone come fine anziché come semplice mezzo. Gli speculatori non sono interessati né alla qualità del prodotto, né alle sorti dell’impresa, ma solo al proprio profitto, che deve essere rapido. Lo Stato deve consentire la libera iniziativa, imporre poche tasse agli speculatori che si arricchiscono senza lavorare e risparmiare sulle spese sociali.
Il modello europeo si fonda invece direttamente sull’impresa e sul suo processo produttivo. L’impresa svolge un importante ruolo sociale e appartiene ad azionisti stabili, che sono interessati alla sua produzione, e non può essere venduta come una semplice merce. Il denaro è un mezzo e il profitto perseguito non è necessariamente rapido, ma anche a lungo termine. Lo Stato è chiamato a intervenire a seconda delle necessità sociali e ad imporre un carico fiscale proporzionato al reddito. È il cosiddetto “capitalismo dal volto umano” (MALLE 1998: 36), che è particolarmente rappresentato dal modello svedese.
In ogni caso, in una società capitalistica, il potere è nelle mani dei più ricchi. Il ricco è proprietario di aziende, dove lavorano migliaia di cittadini, il che gli conferisce la facoltà di ricattare i politici e orientarne le scelte; è proprietario di case editrici e testate giornalistiche, di reti televisive e portali internet, attraverso cui controlla l’informazione; è proprietario di denaro, col quale può anche condizionare la giustizia (tutti sappiamo che spesso le cause vengono vinte non da chi ha ragione, ma da chi può permettersi gli avvocati migliori).
Solo il potere religioso potrebbe efficacemente opporsi alla plutocrazia capitalistica anteponendo i valori etici dell’individuo (o della persona) a quelli del denaro, ma, il più delle volte, anche le chiese appaiono sensibili ai propri interessi materiali e, almeno di fatto, sostengono i valori del capitalismo. Così la logica plutocratica domina incontrastata sul mondo.

14.5. Storia
Nel corso del mesolitico e fino agli inizi del neolitico, i rapporti fra le famiglie e fra i clan erano regolati e scanditi dallo scambio di doni, il cui scopo era duplice: assicurare rapporti di buon vicinato e attuare una forma, per quanto grossolana, di redistribuzione delle risorse (Ruffolo 2008: 6-7). Non solo gli uomini preistorici, ma anche gli antichi ignorano l’idea di c., sostanzialmente perché essi tendono a credere che ogni risorsa della terra appartenga a un dio o ad un suo rappresentante e si comportano di conseguenza.
I primi segni di c. incipiente compaiono insieme alla diffusione dell’agricoltura e della guerra, l’introduzione della proprietà privata, il lavoro schiavista, le attività commerciali e imprenditoriali, anche se sono ancora assenti i tratti tipici del c., ovverosia l’accumulazione in vista di un profitto e un’economia autonoma rispetto alla società.
Così, l’antico Egitto è considerato proprietà del faraone, il quale dispone ai suoi funzionari di assegnare un lotto di terra per ogni gruppo familiare, che provvede poi a coltivarla, tenendo per sé la parte del raccolto necessaria per la sussistenza e versando il resto nei magazzini del legittimo proprietario, ossia il faraone stesso. Non molto diversa è la situazione nei piccoli e grandi imperi della Mesopotamia, che vanno nascendo da azioni di conquista militare. In questo caso, i condottieri vittoriosi si impadroniscono della terra e la dividono alle famiglie dei guerrieri, che se ne prendono cura: i padroni sono i conquistatori, lo sono per volere di in dio e lo rimangono fino a che hanno forza sufficiente per difendersi da altri possibili pretendenti. In pratica si possono distinguere due tipi di proprietà: quella che un gruppo conquista e conserva con le sole proprie forze, per esempio il territorio di un clan o di una tribù, e quella che si riceve dal re a seguito di una campagna militare vittoriosa, sia pure con l’impegno di pagare un tributo al sovrano.
Il ceto aristocratico è pago di possedere schiavi e terreni e non pensa a reinvestire i profitti, né ad entrare in una libera competizione di mercato, cosa che li declasserebbe al livello di imprenditori, commercianti e parvenu. Ne deriva la bassa reputazione di cui sono fatti oggetto le persone arricchite col proprio lavoro, qualunque esso sia. E infatti, nel mondo greco-romano antico e per buona parte del Medioevo, le attività commerciali non godono di molto credito sociale e a volte sono apertamente disprezzate.
Questo stato di cose si prolunga fino alla costituzione delle Repubbliche marinare, la cui economia è largamente legata a traffici commerciali di ogni tipo. I grandi mercanti arricchiti iniziano a costruire le loro lussuose dimore tutt’intorno alle chiese vescovili, richiamando uno stuolo di piccoli artigiani e commercianti. È così che si vanno costituendo i primi agglomerati urbani, chiamati borghi, che ben presto vengono circondati da mura. Inizia l’ascesa della borghesia. Venezia, Pisa, Genova e Amalfi diventano delle nuove Atene, con le loro flotte, che dilagano nel Mediterraneo e guardano ad Oriente, con i loro rematori-cittadini, le loro politiche di potenza e la stessa accesa rivalità nei confronti delle altre Repubbliche e delle altre città che nel frattempo vanno sorgendo.
Dopo la scoperta dell’America il baricentro del capitalismo si sposta verso altri paesi europei, come il Portogallo, la Spagna, l’Olanda e l’Inghilterra, le cui flotte solcano le acque degli Oceani e portano i propri uomini in ogni angolo del pianeta, gettando così le basi per la rivoluzione industriale e facendo registrare, tra il XVIII e il XIX secolo, un’irresistibile ascesa del capitalismo, che raggiunge il culmine nel secolo seguente, il cosiddetto secolo americano.
Dopo la caduta del comunismo, il capitalismo rimane l’unica forza valida in campo e domina incontrastato la scena economica mondiale, né si intravedono alternative, almeno così si dice. “È improbabile che, nei paesi democratici, il capitalismo e l’economia di mercato saranno sostituiti da qualcos’altro […]. Non c’è in vista nessuna alternativa che si possa dimostrare superiore a un’economia prevalentemente di mercato (DAHL 2000: 175-181).
Il c., che si in precedenza si era giovato di quelle che conosciamo come «prima», «seconda» e «terza» rivoluzione industriale, continua a trarre un formidabile sostegno dalla cosiddetta «quarta rivoluzione industriale», che ha caratterizzato gli ultimi decenni, fino ai nostri giorni, e che si è potuta realizzare grazie alla diffusione dell’informatica e della globalizzazione che, consentendo una forte accelerazione dei cambiamenti strutturali dell’economia di mercato, ha fatto sì che si cominciasse a parlare di «turbo-capitalismo». “Il capitalismo attuale è definito «turbo-capitalismo» perché oggi i cambiamenti strutturali sono fortemente accelerati dalla diffusione dell’informatica e dalla globalizzazione” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 5).
Oggi la Cina è un paese a forte crescita economica, è anche il primo paese creditore degli Usa, e molti già intravedono in essa il futuro G1. Il XXI secolo potrebbe anche essere cinese, ma di chiunque sarà, sembra certo che si rischia di superare i limiti di sostenibilità della crescita capitalistica, che sono legati in parte alla finitezza delle risorse e alle capacità di smaltimento delle emissioni e dei rifiuti, in parte ai problemi correlati con le disuguaglianze sociali, la crescente domanda di accesso alle ricchezze da parte di masse escluse (Ruffolo 2008: 260). Così, alla fine, il c. rischia di affossare se stesso. Oppure riuscirà a sopravvivere, ma solo se saprà trovare una valida risposta ai limiti suddetti. In ogni caso, esso dovrà giocare la sua partita con se stesso. Secondo Giorgio Ruffolo, alternative vere e proprie al c. non se ne intravedono e l’unica opzione possibile, oltre all’autoannientamento, rimane quella di apportare modifiche e correttivi al sistema presente (2008: 261-79).

14.6. La Borghesia
Col termine Borghesia ci si riferisce ad un particolare ceto sociale, che, affacciatosi in Europa agli inizi del secondo millennio d.C., finisce per caratterizzare la società moderna e contemporanea. Inizialmente i borghesi sono coloro che risiedono in città (nel borgo), in contrapposizione ai nobili, che vivono nelle campagne. È solo a partire dalla Rivoluzione francese che la borghesia si affianca, come alternativa positiva, all’aristocrazia. Per la prima volta si comincia a ritenere che non solo la nascita o il sangue, bensì anche i meriti fanno i «migliori»: anche i meriti stanno alla base delle carriere e delle ricchezze. È così che i ricchi per merito cominciano ad affiancarsi ai ricchi per nascita, cioè ai nobili. Nell’Ottocento il ceto borghese è ben definito e consolidato. Esso indica quella fetta di popolazione che è impegnata a produrre denaro, quella che gli anglosassoni chiamano middle class, alla quale viene contrapposta la classe contadina, che produce beni materiali di consumo.

14.7. Il capitalismo liberale
La borghesia ha generato il capitalismo liberale che oggi domina incontrastato il pianeta e deve fare i conti solo con se stesso. Rispetto al sistema economico antico-feudale, il c. presenta poche affinità e molte differenze. Tra le affinità, dobbiamo ricordare l’uso della forza. Anche gli Stati liberali prendono origine da azioni di conquista e devono difendersi con la forza. Ma le differenze sono nettamente prevalenti. Solo i paesi più ricchi, infatti, dispongono di armi così sofisticate da non temere attacchi di guerra da parte di nemici esterni, oltre che di un sistema di polizia tale da proteggere discretamente i cittadini dal rischio di azioni criminali. Un solido sistema assicurativo, poi, provvede a garantire un equo indennizzo a quanti abbiano subito danno non solo a seguito di azioni di terzi, ma anche a causa di eventi naturali. Numerose imprese economiche e produttive danno lavoro a masse di dipendenti, di operai e salariati. Il diritto è ordinato in modo da compensare i cittadini da eventuali torti subiti e tutelare i loro averi. Ma questo è solo ciò che vuole fare apparire: la realtà, come vedremo, è un’altra.

14.8. Una società duale
Oggi, nei paesi capitalisti, è possibile che una sola persona possieda quei beni o quei mezzi di produzione (terre, industrie, servizi, imprese artigianali, commerciali e finanziarie) che in precedenza potevano appartenere solo ad una collettività, e possa disporre di un patrimonio economico che basterebbe a garantire la sussistenza a milioni di persone. In un paese capitalista nessuno si chiede se la fortuna del grande imprenditore sia il frutto di meriti personali o di truffe, inganni, rapine o sfruttamenti, così come nessuno si chiede se il povero debba la sua condizione a limiti personali o a cause esterne. In un paese capitalista a nessuno interessano i princìpi di giustizia: contano solo i fatti e i fatti dicono che chi ha più soldi è più bravo e chi è povero è un inetto.
Conseguentemente, al ricco sono concessi diritti negati al povero, come quello di esercitare il potere economico, di fare la scalata al potere politico, di avere maggiore accesso alle fonti di informazione e nei mass media, di permettersi i migliori consulenti finanziari, la migliore assistenza legale e sanitaria, e tante altre cose, che normalmente sono precluse ai poveri. Anche se apparentemente la legge è uguale per tutti, è evidente che il ricco può servirsi della legge a proprio vantaggio più di quanto riesca a fare il povero, e farsi forte del diritto al fine di difendere i suoi interessi e le sue proprietà.
I proprietari dei mezzi di produzione abitualmente affidano ad altri l’esecuzione manuale delle mansioni e spesso vivono di rendita e senza la necessità di svolgere alcuna attività lavorativa. La differenza con il sistema antico-feudale è netta: allora il proprietario doveva contribuire personalmente al buon andamento dei suoi affari, ora può limitarsi a raccogliere i frutti, come fa, per esempio, l’azionista, che nemmeno conosce la realtà produttiva, di cui egli in parte è padrone; allora l’artigiano doveva usare la propria testa e le proprie mani per cercare lavoro, produrre e vendere, ora l’imprenditore può programmare a tavolino le mansioni da assegnare ai singoli lavoratori salariati. Ne risulta una distinzione, non dichiarata ma di fatto, fra cittadini di serie A e cittadini di serie B.

14.9. Lo Stato minimo
Una volta ottenuta la protezione della legge, il capitalista spera di essere lasciato libero di assumere ogni iniziativa, nella convinzione che le sue capacità imprenditoriali, il suo fiuto e la sua genialità possano aprire nuovi mercati, creare nuovi posti di lavoro, incrementare il benessere e l’utilità media, ed ecco allora che pretende la massima libertà dell’individuo e la minima ingerenza dello Stato. Uno Stato minimo ha poche leggi e tutte finalizzate a garantire la sicurezza dei cittadini, il rispetto dei loro contratti commerciali e la tutela delle loro proprietà private. Non solo esso non deve ostacolare la corsa all’arricchimento di alcun cittadino, ma deve anche favorirla, per esempio non esercitando un carico fiscale progressivo, nella convinzione che sono i ricchi a creare il progresso e a portare avanti il mondo. Meglio ancora, per il capitalista, è un unico Stato mondiale o una confederazione mondiale di Stati, sempre «minimi», che vivano in pace e dove tutto quello che non è espressamente vietato dalla legge sia da intendersi come lecito.

14.10. La globalizzazione
È in questo contesto che si sviluppa la cultura della cosiddetta globalizzazione. Guardando al mondo come ad villaggio, i grandi imprenditori individuano i luoghi dove la manodopera è più a buon mercato e là fanno produrre le loro merci, che poi rivendono dove c’è gente disposta a pagarli di più. “I capitalisti si arricchiscono spostando servizi, beni e risorse naturali da dove costano meno a dove sono più cari, e spostando la produzione dei beni da dove è più costosa a dove lo è meno” (THUROW 1997: 181). Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo. “Per la prima volta nella storia dell’umanità, qualsiasi prodotto può essere ormai fabbricato e venduto ovunque. Nell’economia capitalistica, questo vuol dire che ogni merce e ogni attività produttiva saranno realizzate là dove i costi sono più bassi, mentre i prodotti o servizi finali potranno essere venduti là dove i prezzi e i profitti sono più alti. Minimizzare i costi e massimizzare i ricavi: ecco, nella sostanza, la massimizzazione del profitto, ossia il nucleo del capitalismo” (THUROW 1997: 124).

14.11. La libera concorrenza
A parole il capitalista accetta anche la libera concorrenza, a garanzia che ciò contribuirà a selezionare gli uomini e i prodotti migliori, il che tornerebbe a beneficio del consumatore. In realtà egli è disposto a rispettare le regole della concorrenza solo quando è più forte degli altri e può schiacciarli, ma le teme in tutti gli altri casi. Così, quando ci sono più imprese di pari potenzialità, che producono lo stesso prodotto, temendo di danneggiarsi facendosi concorrenza, esse tendono a creare trust o cartelli, ovvero condizioni di monopolio o oligopolio, che finiscono per favorire il capitalista e danneggiare il consumatore. Nel concreto, è raro che un paese capitalista applichi pienamente la libera concorrenza, come vorrebbe invece lo spirito del libero mercato.

14.12. La figura del consumatore
Nel «libero» mercato si muovono due figure chiave, che sono l’una speculare dell’altra. Della prima abbiamo parlato: è la figura dell’imprenditore o finanziere. La seconda figura è quella del consumatore.
In teoria il c. vuole che anche il consumatore venga lasciato libero di fare come meglio crede i suoi acquisti. Di fatto, tuttavia, nemmeno questa libertà viene rispettata e il consumatore in realtà è continuamente bersagliato da messaggi di ogni tipo, che lo orientano in certe direzioni, che poi sono quelle maggiormente gradite agli imprenditori e ai politici. Oggi in un paese capitalista, per es. in Italia, è possibile prevedere in buona misura ciò che un neonato farà nel corso della sua vita, basandosi unicamente sulla sua famiglia e sul luogo ove essa risieda. Per esempio, per un bambino che nasca a Udine, si può prevedere che egli verrà battezzato, che frequenterà la scuola dell’obbligo, che cercherà di inserirsi nel mondo del lavoro scegliendo l’attività meno rischiosa e più remunerativa, che acquisterà un certo tipo di prodotti secondo le sue disponibilità economiche e secondo le pressioni pubblicitarie, che si sposerà e metterà al mondo uno o due figli, sui quali coltiverà dei progetti finalizzati a portarli più in alto di quanto lui stesso sia stato in grado di giungere, che farà di tutto per dare agli altri la migliore immagine di sé nella convinzione che ciò lo aiuterà a far quattrini, che esibirà i segni della sua ricchezza come prove evidenti delle sue qualità e che si preoccuperà anche di edificare un monumento sepolcrale adeguato al suo rango affinché, anche dopo morto, gli altri sappiano che egli è stato un grand’uomo.
La società capitalista non si interessa dei reali bisogni dell’individuo, ma solo della produzione e dei consumi, in funzione dei profitti. Così, molti bisogni sono creati dal mondo imprenditoriale, che, dovendo vendere i propri prodotti, investe denaro per inviare al popolo dei consumatori allettanti messaggi pubblicitari per indurli a comprare. E anche quando il consumatore abbia comprato, il messaggio continua a raggiungerlo senza sosta, lo insidia, lo circuisce, lo seduce e, infine, lo induce a fare nuovi acquisti, che spesso sono inutili. Compri oggi e paghi domani con comode rate e senza interessi. Le offerte del mercato appaiono così allentanti e suadenti da indurre il consumatore ad impegnare anche il denaro che spera di guadagnare domani e accettare un rischio che potrebbe costargli molto più caro di quanto immagini.
Il consumatore che acquista a rate dev’essere sicuro almeno di mantenere le entrate attuali, ma guai se si verifica un imprevisto, una disgrazia, una nuova spesa improrogabile. In questo caso egli dovrà ricorrere ad un prestito e, per pagarlo, dovrà stringere ancora la cinghia e sperare che nel futuro gli affari gli vadano sempre meglio. Ma ciò non è scontato: l’imprenditore offre lavoro fino a quando gli conviene e, quando un lavoratore non rende o il prodotto non tira, c’è il rischio di licenziamento e, più passano gli anni, più è difficile trovare una nuova occupazione. A queste condizioni (comprare a rate e non avere la certezza del lavoro), si capisce bene come sia estremamente difficile che un consumatore medio di una società capitalista possa mai essere sereno e felice.

14.13. Le esigenze del mercato sopra tutto
Non solo i bisogni indotti, ma anche quelli più elementari, come l’istruzione e la salute, devono sottostare alla logica del libero mercato e del profitto. Apparentemente c’è libertà di istruzione e di cura, ma solo apparentemente. Prendiamo il mondo della scuola. Le case editrici propongono testi che rispettano le direttive ministeriali, ma che spesso non sono dimensionati alle capacità di apprendimento e ai reali interessi di un ragazzo medio, che dovrebbero essere quelli di imparare a comprendere l’ambiente naturale, economico e politico che lo circonda, in modo da poterci vivere responsabilmente una volta divenuto adulto. Da parte loro, gli insegnanti sono così oberati dalla necessità di rispettare i programmi e di espletare le incombenze burocratiche da non trovare spazi per un adeguato rapporto personale e un’elastica interpretazione dell’opera educativa e formativa. Così, spesso la scuola rimane ai margini dei problemi concreti e quotidiani della vita e non risponde ai reali bisogni dei futuri cittadini, cioè gli alunni, né gratifica le qualità professionali del personale docente.
Non esiste un metodo di valutazione del lavoro degli insegnanti diverso dalla solita legge di mercato, che recita: più alunni si iscrivono in una classe, più l’insegnante è bravo, indipendentemente dai motivi che possono aver indotto l’alunno e i suoi genitori a preferire quella classe. Lo stesso si può dire per la sanità. Non c’è un metodo, per così dire «scientifico», di valutare l’operato di un medico. Quello che conta è il numero di clienti che quel medico riesce a conquistare, non la bontà effettiva delle sue cure; il numero delle sue prestazioni, non la loro qualità. È questa la ragione per cui in una società capitalista si fa poca distinzione tra una prestazione di tipo «scientifico» e una di tipo «magico». Alla fine conta solo la soddisfazione del cliente e il giro di affari che si determina, e così un venditore di illusioni, che riesca a guadagnare un milione di euro all’anno, vale molto di più di un qualsiasi professionista, che ne guadagni centomila. Analoghe considerazioni possono essere fatte per ogni altro campo economico e produttivo. Il programma televisivo migliore è quello che fa più audience, il libro, la rivista, l’automobile, il libero professionista, l’imprenditore, il politico tanto valgono quanto riescono a vendere e a vendersi. Il c. valuta la qualità attraverso la quantità.
Il c. non si pone problemi morali e considera buono tutto ciò che produce un profitto. Non c’è un’etica capitalistica, a meno che non si voglia considerare per tale la cosiddetta etica protestante di weberiana memoria, che vede nel successo e nella ricchezza un segno tangibile dell’approvazione divina e dell’elezione alla vita eterna (WEBER 1996: 213-4). Nella logica capitalistica, non c’è nulla di proibito. Perfino “il crimine è semplicemente un’attività economica tra le altre, che si dà il caso abbia un prezzo elevato (il carcere) nel caso si venga presi” (THUROW 1997: 172). Il c. mira a soddisfare ogni possibile interesse, tanto il più nobile quanto il più perverso e lascia i singoli liberi di stabilire cosa sia bene per sé: “la scelta di essere un criminale è legittima quanto quella di farsi prete” (THUROW 1997: 302). Le attività di tipo mafioso, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione, la pornografia, il traffico di armi, il commercio di organi umani, lo spaccio di droghe, i furti, le rapine, i sequestri di persone, le corruzioni, le concussioni, le truffe di ogni tipo, e ogni altra possibile azione, che ripugnano al senso etico comune, tutto ciò è valutato dal c. secondo il volume di denaro che fa circolare. Senza un codice etico, le società capitaliste vivono interamente immerse nel presente, interessate al profitto immediato, e non si curano delle possibili conseguenze, come l’inquinamento e il degrado ambientale, che lasciano in eredità alle generazioni future.
Per il c. al primo posto viene il mercato e il profitto “L’oro apre tutte le strade. L’oro che apre tutte le strade è diventato il Dio della nazione. C’è un solo vizio, la povertà. C’è una sola virtù, la ricchezza. Bisogna essere ricchi o disprezzati. Se si è effettivamente ricchi, si mostra la propria ricchezza in tutti i mezzi immaginabili. Se non si è ricchi, si vuol diventarlo per tutte le vie immaginabili. Nessuna è disonesta” (Diderot 1967: 263). Dare spazio al mercato, perché ciò produce ricchezza e contribuisce al progresso della società e al benessere delle persone.
Lo stesso progresso tecnologico e industriale è consentito solo nella misura in cui esso sia in grado di offrire nuovi prodotti da commercializzare o lo sfruttamento di nuovi mercati.
Da questo processo di monetizzazione generalizzata non si salva nemmeno l’ancestrale istituto familiare. Anch’esso, infatti, è sottoposto al vaglio di una fredda valutazione economica, la quale stabilisce, per esempio, che i figli non costituiscono più un vantaggio per i genitori, ma solo un onere. “Dal punto di vista dell’analisi economica, i figli sono un bene di consumo di lusso il cui prezzo è in rapida crescita” (THUROW 1997: 35). Secondo questa valutazione, non ci sarebbe più alcun vantaggio ad avere figli e così, anche il più naturale dei processi, il processo generativo, si riduce a puro calcolo.

14.14. Il futuro del capitalismo
Il futuro del c. dipende dai suoi limiti intrinseci e dalle risposte che si troveranno ai seguenti interrogativi. È veramente possibile uno sviluppo illimitato per tutti gli uomini? Dispone la terra delle risorse adeguate in tal senso? È possibile un capitalismo a livello planetario, o bisogna rassegnarsi ad un mondo duale? Come reagirà il Terzo e Quarto Mondo, povero, nei confronti del Primo e Secondo Mondo, ricchi? Il consumismo fine a se stesso è compatibile con le capacità del pianeta di smaltire i prodotti di rifiuto? Può il capitalismo generare felicità? Se il c. dovesse tramontare, quale nuovo sistema sarà in grado di raccoglierne l’eredità? Fino ad oggi una risposta consensuale a questo interrogativo non è stata trovata.
Se Marx ha bollato il capitalismo e ne ha preconizza la fine, Darwin, senza saperlo, ha formulato una teoria che, in un certo senso, può rafforzarlo. La teoria della selezione naturale, infatti, dimostra: primo, che tutti gli esseri viventi sono in competizione tra loro e che sopravvivono solo i più adatti; secondo, che l’uomo discende da forme animali più semplici e rappresenta l’ultimo gradino dell’evoluzione. Partendo da questi presupposti, il darwinismo sociale può affermare che anche nelle società umane vanno avanti i più capaci. Nello stesso tempo, torna in auge l’idea rinascimentale che il destino di ciascuno dipende da se stessi, dalla propria volontà, dai propri meriti. Ebbene, il darwinismo sociale e l’individualismo concorrono a spiegare e a giustificare la competizione capitalistica e riconducono la distinzione tra ricchi e poveri ad un semplice fatto biologico. Adesso le qualità di un individuo si possono misurare con il patrimonio, né si ritiene opportuno porre limiti alla ricchezza di una persona: più uno è ricco e più egli vale.
Oggi c’è chi tende a vedere nel c. la massima espressione possibile dell’esperienza politica, un livello di sviluppo non superabile, il capolinea della storia umana (Fukuyama 1996). Secondo Giuseppe Turani, nonostante tutto, “il capitalismo ci accompagnerà ancora per moltissimo tempo per la semplice ragione che ha dimostrato di funzionare” (2009: 156). Ma c’è anche chi crede che anche il c. dovrà finire. Secondo Severino, per esempio, il capitalismo, prima o poi, “dovrà rendersi conto che distruggendo la Terra distrugge se stesso. E sarà questa coscienza, non la coscienza morale o religiosa, a spingere il capitalismo al tramonto” (1993: 56). “Il capitalismo tramonta, perché è costretto, prendendo coscienza del proprio carattere autodistruttivo... Il nemico più implacabile e più pericoloso del capitalismo è il capitalismo stesso” (SEVERINO 1993: 56-7). “Il «dilemma» del capitalismo è o distruggere «realmente» la Terra, distruggendo quindi se stesso, oppure convincendosi del carattere distruttivo del proprio agire, assumere come scopo la salvezza della Terra e non il profitto, anche in questo secondo caso distruggendo se stesso” (SEVERINO 1993: 84).

14.15. Vantaggi e limiti
L’automazione computerizzata delle nuove catene industriali oggi rende possibile una produzione di massa di beni di consumo largamente accessibili a livello popolare.
Sono migliorate le condizioni di vita delle famiglie, che possono contare su servizi, come l’energia elettrica, il telefono, l’acqua corrente, il riscaldamento e quant’altro, ed è migliorato, in generale, il tenore di vita.
Secondo gli estimatori del c., perfino le vertiginose differenze di reddito fra imprenditori e salariati sono vantaggiose. È un bene, infatti, che l’imprenditore sia disposto ad assumersi tutti i rischi dell’azienda, mentre il dipendente viene adeguatamente ripagato dalla sicurezza di percepire un salario costante comunque vadano le cose. “Chiaramente, vi sono dei vantaggi in un sistema che consente alle persone di addossare ad altri rischi che non desidera correre e permette loro di essere pagati con una somma prefissata, qualunque sia l’esito dei processi rischiosi. Vi sono grandi vantaggi nel permettere l’opportunità di una simile specializzazione nell’accettare rischi; queste opportunità conducono alla tipica gamma delle istituzioni capitaliste” (NOZICK 2000: 268).
Ovviamente non la pensano allo stesso modo i detrattori del c., i quali pongono l’accento sulle seguenti questioni.
Il c. è un sistema ideologico fondato sulla logica della competizione: tutti competono contro tutti e il più forte vince. Si spiegano così gli imponenti apparati militari che, insieme al divario tecnologico, disegnano una geopolitica a due velocità, dominata da pochi paesi ricchi e potenti, primi fra i quali gli Usa, che dettano la propria legge sul resto del mondo, una legge che è fatta di guerre, sfruttamento, rapina, neocolonialismo, neoimperialismo (AA.VV. 2003).
Quando assume un lavoratore, l’imprenditore capitalista deve “vedere in questa assunzione una possibilità di guadagno” (COLE 1976: 182) e deve trascurare ogni altra considerazione etica, umana e ambientale. Il c. non persegue i princìpi di uguaglianza di nascita e di opportunità, né si occupa dei singoli individui allo stesso modo, ma tollera la discriminazione per ragioni di censo. Quindi è un sistema intrinsecamente ingiusto.
Se da un lato, la società capitalistica favorisce il benessere, dall’altro lato essa crea un esercito di sconfitti: tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non riescono ad adattarsi e a competere. Lo spirito del capitalismo è tale da non porsi “il problema del soddisfacimento globale dei bisogni” (ACQUAVIVA 1994: 53). Al capitalista non interessa che la società sia afflitta dalla piaga della disoccupazione o dalla povertà e dalle discriminazioni. “Il fatto che il capitalismo non possa fornire la sicurezza sociale, è – scrive Cole – proprio il miglior argomento che io conosca contro la conservazione del sistema capitalistico” (1976: 188).
Il c. antepone il denaro all’etica e, senza un codice etico, le società capitalistiche vivono interamente immerse nel presente, interessate al profitto immediato.
Nel mondo capitalistico globalizzato avviene che i ricchi “hanno la maggior parte dei vizi dell’aristocrazia senza possederne le virtù” (LASCH 1995: 43). “Sono lieti di pagare per avere delle scuole private e di alto livello, per una polizia privata, per dei sistemi privati di raccolta dell’immondizia, ma sono riusciti a liberarsi, in misura notevole, dall’obbligo di contribuire alle finanze pubbliche” (LASCH 1995: 45). In pratica, sono disposti a pagare servizi privati e tendono ad evadere il fisco, pensano ai loro interessi e si chiudono in un ottuso egoismo. E lo stesso fanno i non ricchi: ciascuno cerca il massimo del profitto per sé e si disinteressa degli altri. L’egoismo domina e la solitudine è in aumento.
Il c. genera vistose disuguaglianze sociali, un’iniqua distribuzione delle risorse. “Ciò che il capitalismo produce è meraviglioso, ma non si può essere contenti del fatto che i soli incentivi capaci di tanta varietà ed efficienza produttiva determinino anche nelle condizioni di vita della gente disuguaglianze gravi e destinate a riprodursi, disuguaglianze che, a loro volta, chiedono poi una protezione politica” (NAGEL 1998: 118).
All’ineguale distribuzione della ricchezza si accompagna l’ineguale distribuzione dei diritti, sicché il ricco esercita anche il potere politico, mentre colui che è emarginato dalla proprietà privata lo è anche dalla partecipazione politica. Infatti, “è poco probabile che cittadini economicamente disuguali siano politicamente uguali” (DAHL 2000: 167). Così larghe fasce della popolazione rimangono escluse dal processo democratico e si generano società duali.
A fronte di questi miglioramenti, però, le industrie, i prodotti chimici, gli scarichi delle macchine, le plastiche e i rifiuti determinano l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e degli alimenti, con conseguenze negative per la salute. Inoltre, lo sfruttamento sconsiderato delle risorse rischia di determinare un’alterazione dell’equilibrio degli ecosistemi, tale da far temere conseguenze negative, e solo in parte prevedibili, circa il futuro del nostro pianeta.
C’è poi da considerare che il profitto del capitalista si può realizzare solo a condizione di una domanda sempre crescente e di un consumismo fine a se stesso. Non si tiene conto della esauribilità delle risorse, dell’inquinamento e del degrado ambientale, dei rischi per la salute e dell’eredità che si lascia alle generazioni future.

13. Liberalismo

Anche se lo spirito liberale si afferma a partire dal XVII sec., il termine «liberalismo» è sconosciuto ai grandi pensatori liberali fino al XVIII secolo, ed entra per la prima volta nel linguaggio politico solo nel 1812, per poi diffondersi rapidamente in Occidente, assumendo connotazioni diverse nei vari paesi.
Non esiste una definizione univoca del termine «liberalismo» e “Ancor oggi la parola liberale ha significati diversi a seconda delle diverse nazioni” (MATTEUCCI 1983: 593).
L’unico elemento comune alle diverse concezioni è la difesa della sfera d’autonomia del singolo dall’invadenza delle istituzioni e dello Stato. Fukuyama chiama «liberale» la democrazia che riconosce il “diritto alla libera attività economica ed allo scambio economico basato sulla proprietà privata e il mercato” (1996: 65); in altre parole, la democrazia capitalistica. Secondo Viroli, “il liberalismo è una teoria politica individualistica che afferma quale fine principale della comunità politica la protezione della vita, della libertà e della proprietà dei singoli” (VIROLI 1999: 44).
L’idea dello Stato come strumento del cittadino è antica. Infatti, già Cicerone scriveva: “Soprattutto per garantire la sicurezza della proprietà privata, si costituirono le città e gli Stati. È vero che gli uomini si unirono in società per naturale impulso, ma è anche vero che essi, nella sicurezza delle città, cercarono la difesa e la custodia dei loro beni” (De officiis II, 21). Tuttavia, è solo da un paio di secoli che quest’idea ha assunto la dignità di una vera e propria dottrina politica. Il l. si sviluppa in Europa nel periodo che va dalla Riforma alla Rivoluzione francese, avendo le sue principali espressioni nel giusnaturalismo, nel contrattualismo, in alcuni princìpi affermatisi ai tempi della Gloriosa Rivoluzione, come l’habeas corpus (a garanzia dagli arresti arbitrari) e il parlamentarismo, nella Dichiarazione d’indipendenza (1776) e nelle Dichiarazioni dei diritti (1789 e 1793).
I liberali sostengono l’esistenza di diritti umani universali, inalienabili e antecedenti ad ogni società, i cosiddetti diritti innati, dinanzi ai quali anche il più grande re deve inchinarsi, e vedono nello Stato un prodotto dell’uomo e uno strumento in mano ai cittadini, la cui funzione è quella di farsi garante di quei diritti. Secondo la concezione liberale, lo Stato è un male necessario e bisogna minimizzarlo attraverso la realizzazione di un sistema politico capace di coniugare la massima libertà dell’uomo con la minima ingerenza da parte del governo.
Fra i pensatori liberali, di cui ricordiamo Montesquieu, Smith, Burke, Kant (XVIII secolo), lord Acton, Ricardo, Say, Malthus, Constant, (XVIII-XIX secolo), Comte, Tocqueville e J.S. Mill (XIX secolo), Hayek, Popper, Nozick, Fukuyama, Leoni, Einaudi (XX secolo), prevale la fiducia illimitata nell’individuo e nel libero mercato. In campo microeconomico, il l. sostiene che “l’individuo è il migliore e il solo giudice del suo interesse particolare e che la società ha il diritto di regolare le sue azioni solo quando si sente lesa da lui, o quando ha bisogno del suo aiuto” (Tocqueville, La democrazia in America, I, 5). A livello di macroeconomia, invece, vale la celebre legge di Say, la quale stabilisce che domanda e offerta si bilanciano sempre automaticamente. [Malthus è uno dei pochi a non condividere tale ottimismo e a richiamare l’attenzione sul rischio che l’incremento demografico non sia automaticamente accompagnato da un altrettanto rapido incremento delle risorse.]

13.1. Il pensiero liberale
Secondo H.J. Laski, il liberalismo esprime il punto di vista di una nuova classe sociale, la borghesia. Il cittadino borghese (che sa leggere e scrivere, che conosce la storia e le tradizioni, le basi dell’ordinamento giuridico e amministrativo, la natura e la filosofia, le scienze e le tecniche, l’arte oratoria e politica) sviluppa una coscienza nuova e non accetta più di essere guidato dall’esterno e dall’alto. Presumendo di conoscere i propri interessi e, ritenendo di essere in possesso dei mezzi necessari per soddisfarli, egli rifiuta di essere guidato per mano come un bambino da uno Stato paternalistico e aspira ad essere adulto, libero, autonomo e artefice del proprio destino. Forte tanto nel sapere (la cultura, l’informazione e le conoscenze tecniche sono sempre più controllate da questa nuova classe, che comprende letterati, liberi pensatori e professionisti) quanto nel denaro (crescenti masse di denaro circolano grazie al lavoro e alle iniziative della classe media, che, pertanto, assume un ruolo sempre più determinante in molti settori della società, che prima erano appannaggio della nobiltà), la borghesia prima si confronta con i vecchi padroni, la nobiltà e il clero, e poi li soppianta.
Il liberalismo è legato ad una concezione individualistica della società, per la quale “l’uomo in quanto essere razionale è persona, e ha un valore assoluto, prima e indipendentemente dai rapporti di interazione coi suoi simili” (BEDESCHI 1996: 261). Humboldt e Constant ritengono che il vero protagonista della civiltà e del progresso sia l’individuo e non lo Stato. Partendo dall’assunto che tutto è relativo e opinabile e non esiste il bene assoluto e oggettivo, Kelsen afferma che ciascuno è il miglior giudice di ciò che è bene per lui e non è dato a nessuno di imporgli il proprio punto di vista. Certo, dato che tutti possono sbagliare, la cosa migliore è rimettersi alla volontà dei più. Tuttavia, anche se un valore fosse espresso dalla maggioranza, si tratta comunque di un valore relativo e opinabile, e non può essere imposto ad alcuno. Per Green, è bene tutto ciò che mira a realizzare, nella maggiore misura possibile, le facoltà proprie dell’uomo, tutto ciò che promuove la persona umana e la rende quello che dovrebbe essere: simile a Dio. La proprietà privata va bene e sarebbe augurabile che tutti fossero proprietari.
Per i liberali, in ogni comunità è il soggetto che forgia e determina le decisioni e le preferenze in merito a ciò che rende una vita degna di essere vissuta; tutte le azioni sono intenzionali e significative, e solo a queste condizioni esse possono essere comprese; le norme di comportamento e i valori etici appartengono unicamente alla sfera privata e non devono essere argomento di discussione e tanto meno di giudizio pubblico. Il protagonista della società liberale è l’individuo, che aspira ad essere lasciato libero da ogni ingerenza dello Stato, libero di perseguire i propri interessi e di seguire i propri impulsi, anche quelli egoistici, nella convinzione che, così facendo, il mercato si vivacizza, circola più denaro e aumenta il benessere per tutti. I liberali si battono a favore delle libertà di (di religione, parola, stampa, riunione, associazione, iniziativa economica, partecipazione al potere politico) e delle libertà da (dal bisogno, dalla paura, dall’ignoranza), nella convinzione che la libertà d’iniziativa individuale sia cosa buona e desiderabile. Sotto questo aspetto, liberalismo e DD corrispondono: per entrambi il punto di partenza è l’individuo ed entrambi puntano sull’individuo autonomo e responsabile. È esattamente il contrario di quanto affermano il comunitarismo e l’organicismo.
Bruno Leoni, che, insieme a Einaudi, è uno dei più prestigiosi esponenti del liberalismo italiano contemporaneo, agita i princìpi del liberalismo in opposizione al socialismo. A parer suo, il socialismo è ordinato, grigio, noioso e negativo in quanto suscita negli strati più deboli della popolazione sentimenti di invidia nei confronti della classi più elevate, poi promette agli invidiosi una vita agiata indipendentemente dai loro meriti. Al contrario, la libertà liberale è caotica, certo, ma stimolante e produttiva, come la folla: anche la folla è caotica, ma in essa ogni individuo sa dove va e cosa vuole. L’ordine socialista è come una parata militare: in essa ogni individuo deve andare dove gli hanno ordinato di andare (RICOSSA, Prefazione a LEONI 1997: pp. 7-20 ).

13.2. Dal «primo uomo» alla democrazia liberale: il pensiero di Fukuyama
Appellandosi all’autorità di Hobbes e Hegel, Francis Fukuyama parla del «primo uomo» ossia dell’uomo allo stato di natura e afferma che, a differenza degli animali, quest’uomo poteva avvertire un desiderio di gloria (thymòs), che lo induceva a mostrarsi coraggioso e a rischiare la propria vita (Fukuyama parla di megalotimia) pur di cattivarsi il riconoscimento degli altri (1996: 164ss). Ma non tutti avvertivano tale bisogno, anzi, la maggior parte degli uomini si accontentavano di essere riconosciuti come eguali (isotimia). Secondo Fukuyama, tutto ciò che c’è di buono nella storia è stato creato proprio da quegli uomini che desideravano essere riconosciuti migliori (1996: 318), i quali, giustamente, sono diventati i padroni del mondo. Per Fukuyama, la democrazia liberale (DL) costituisce la forma di governo migliore possibile: “oggi noi riusciamo a malapena a immaginarci un mondo migliore del nostro, o un futuro che non sia sostanzialmente democratico e capitalista” (1996: 67). Insomma, siamo giunti al capolinea e possiamo decretare la “fine della storia” (1996: 9).

13.3. Liberalismo e democrazia
Il liberalismo “nel corso di questi due secoli, non è stato e non è sinonimo di democrazia” (PONT 2005: 110), perché non è una dottrina egualitaria. Nel pensiero liberale, “libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel senso che non si può attuare pienamente l’uno senza limitare fortemente l’altro” (BEDESCHI 1996: 273). Il l. discorda da Rousseau, il quale sostiene che la natura ha fatto gli uomini uguali e la società civile li rende disuguali, mentre concorda con Nietzsche, secondo il quale per natura gli uomini sono diseguali, mentre la società, con la sua morale del gregge, li rende eguali.
Le dottrine egualitarie esigono che tutti abbiano abbastanza e nessuno abbia troppo e, perciò, tendono a fissare dei limiti minimi e massimi di reddito. Il liberalismo, invece, concepisce la vita sociale come una grande competizione, dove vince il più capace e dove chi più ha è migliore. Così, la povertà diventa un vizio e i poveri sono cittadini di serie B. Le due sole uguaglianze ammesse dal liberalismo sono quella di metter tutti i concorrenti nelle stesse condizioni di partenza e quella che tutti devono essere uguali di fronte alla legge. Ma sono entrambe illusorie. Infatti, la prima è solo un enunciato teorico e viene usata come alibi per giustificare le disuguaglianze d’arrivo; la seconda è smentita dal fatto che, anche ai giorni nostri, i diritti dei cittadini sono ampiamente condizionati dalla nascita e dalla disponibilità economica.
In linea di massima, il liberalismo è favorevole alla divisione dei poteri, alla Costituzione e al federalismo, ma non necessariamente alla democrazia. Un governo liberale, infatti, può essere anche una monarchia costituzionale o parlamentare, oppure un’oligarchia o un’aristocrazia, purché rispetti la libertà dei singoli. L’unica forma di democrazia concepibile per il liberalismo è quella rappresentativa, che dev’essere praticata nel rispetto dei diritti delle minoranze ed evitando che degeneri in una tirannia della maggioranza, e non importa che il suffragio sia universale: potrebbe andare bene anche il suffragio ristretto, di tipo censitario.
DD e liberalismo devono, invece, essere ritenuti incompatibili, perché sostengono due diverse concezioni dell’individuo. Mentre, infatti, l’individuo liberale compete in un mondo pieno di insidie e vede nello Stato un male necessario a tutela dei suoi diritti, l’individuo democratico è una parte attiva e responsabile di quella libera associazione che è il popolo e vede nello Stato un insostituibile e prezioso alleato. Inoltre, il liberalismo tollera la disuguaglianza delle persone alla nascita, la DD no.

13.4. Lo Stato minimo secondo Robert Nozick
Il punto di partenza di Nozick è costituito dagli individui, che sono tutti unici e tutti diversi “per temperamento, interessi, capacità intellettuale, aspirazioni, inclinazione naturale, ricerche spirituali e genere di vita che desiderano condurre” (NOZICK 2000: 315). Secondo lo studioso, “Ci sono solo individui, individui differenti, con vite individuali differenti. Usando uno di questi individui a beneficio di altri, si usa lui e si reca beneficio ad altri […]. Usare una persona in questo modo non rispetta né tiene in sufficiente considerazione il fatto che si tratta di una persona separata, che la sua è l’unica vita che ha da vivere” (2000: 54).
Il liberalismo di Nozick è rigorosamente individualistico, nel senso che concepisce l’individuo come un assoluto, il punto di origine e il fine di tutti i fatti sociali. I collettivi sono solo somme di individui. Lo Stato è un derivato degli individui e il suo ruolo è solo strumentale e di servizio alle diverse esigenze degli individui. Ora, uno Stato è buono o cattivo a seconda della persona che lo giudica. Ne consegue che non può esserci una società ideale per tutti: “lasciamo cadere il falso assunto che esiste un solo genere di società migliore per tutti” (NOZICK 2000: 323). Alla fine, lo Stato migliore è quello che interviene il meno possibile nella vita dei cittadini. Insomma, minimo potere allo Stato, massima libertà all’individuo. La teoria dello Stato minimo è dettata da una concezione ottimistica dell’individuo, che, per Nozick, è innanzitutto «persona», un essere cioè capace di autogestirsi e di dare un senso compiuto alla propria vita. Ebbene, in quanto persona, ogni individuo è uguale ad ogni altro.
Per Nozick, lo Stato dev’essere una sorta di «guardiano notturno», che deve interferire il meno possibile coi progetti di vita dei singoli individui e limitarsi a garantire loro condizioni di sicurezza. “Le nostre conclusioni principali sullo stato – scrive Nozick – sono che uno stato minimo, strettamente limitato alle funzioni di protezione contro violenza, furto e frode, di tutela dei contratti ecc., è giustificato; che qualsiasi tipo di stato più esteso finisce con il violare i diritti delle persone a non essere costrette a fare certe cose, ed è ingiustificato; e che lo stato minimo è auspicabile oltre che giusto” (2000: 17). “Lo stato minimo – prosegue il Nostro – ci tratta come individui inviolabili, che agli altri non è lecito usare in certi modi come mezzi, o arnesi o strumenti o risorse; ci tratta come persone dotate di diritti individuali con la dignità che ciò comporta. Trattandoci con riguardo, rispettando i nostri diritti, ci permette, individualmente o con chi vogliamo, di scegliere la nostra vita e di realizzare le nostre aspirazioni e la concezione che abbiamo di noi stessi, tanto quanto possiamo, con l’aiuto della cooperazione volontaria di altri individui dotati della stessa dignità” (2000: 337).
Bisogna aggiungere che, al pari di Locke, anche l’individuo di Nozick è un individuo-proprietario. Ebbene, lo Stato minimo deve avere un solo compito: garantire i diritti dei cittadini, primo fra i quali quello di proprietà. Nozick è contrario allo Stato assistenziale e ad ogni forma di eguaglianza giuridica, compresa l’eguaglianza di opportunità.

13.5. Vantaggi e limiti
A livello generale, il principale vantaggio del pensiero liberale è quello di avere reso possibile la proclamazione degli inalienabili diritti umani, di cui c’è evidenza nelle nostre Costituzioni e nelle Dichiarazioni democratiche. Semmai si può recriminare sulla discrepanza fra ciò che si proclama a parole e la realtà concreta che si dipana davanti si nostri occhi. In buona sostanza, i princìpi liberali rimangono ampiamente inosservati. In particolare, in nessuna società viene praticata l’uguaglianza di opportunità dei cittadini, mentre continuano ad esistere i pregiudizi e le differenze per nascita. Si continua a sbandierare il principio della meritocrazia, ma poi non si spiega perché debba essere meritorio nascere da una famiglia piuttosto che in un’altra, in un paese piuttosto che in un altro. Il popolo entra in scena, come corpo unitario, solo nel momento in cui si reca alle urne, e poi, praticamente, scompare. Espressa la sua «volontà generale», esso si eclissa e al suo posto rimangono i rappresentanti eletti che esercitano, essi soli, il potere politico.
Al di là dei princìpi puramente ideologici, il liberalismo si afferma in difesa della proprietà privata della classe borghese, che viene elevata a diritto naturale dell’uomo, mentre si comincia ad attribuire allo Stato il ruolo di gendarme, che vigila affinché tale diritto non venga violato. Ciò può essere visto come vantaggioso dalla classe borghese, ma non dalla classe operaia e dai salariati.
Sotto questo aspetto, il l. è stato fatto oggetto di critiche interne ed esterne. Fra le prime, spicca la critica di “aver concepito il diritto alla proprietà privata come il diritto per eccellenza” (BEDESCHI 1996: 267). Secondo Constant, per esempio, la proprietà privata non è un diritto di natura “perché senza l’associazione che le dà una garanzia essa non sarebbe che il diritto del primo occupante, in altri termini il diritto della forza, cioè un diritto che non è tale” (BEDESCHI 1996: 268). Anche secondo J.S. Mill, la terra è “l’eredità originaria di tutta la specie umana” e nessuno può vantare diritti esclusivi su di essa. La proprietà privata può essere giustificata solo in rapporto al lavoro: io posso dire «questa terra è mia» solo e nella misura in cui la coltivo e la curo avvalendomi delle mie braccia e del mio cervello. Di fatto, invece, il l. consente la sussistenza della proprietà e del reddito anche indipendentemente dal lavoro e, dunque, considera lecito che una persona possa essere ricca anche senza lavorare.
Le principali critiche esterne provengono dall’area social-comunista e dalla Chiesa romana (si vedano le singole voci).