Anche se lo spirito liberale si afferma a partire dal XVII sec., il termine «liberalismo» è sconosciuto ai grandi pensatori liberali fino al XVIII secolo, ed entra per la prima volta nel linguaggio politico solo nel 1812, per poi diffondersi rapidamente in Occidente, assumendo connotazioni diverse nei vari paesi.
Non esiste una definizione univoca del termine «liberalismo» e “Ancor oggi la parola liberale ha significati diversi a seconda delle diverse nazioni” (MATTEUCCI 1983: 593).
L’unico elemento comune alle diverse concezioni è la difesa della sfera d’autonomia del singolo dall’invadenza delle istituzioni e dello Stato. Fukuyama chiama «liberale» la democrazia che riconosce il “diritto alla libera attività economica ed allo scambio economico basato sulla proprietà privata e il mercato” (1996: 65); in altre parole, la democrazia capitalistica. Secondo Viroli, “il liberalismo è una teoria politica individualistica che afferma quale fine principale della comunità politica la protezione della vita, della libertà e della proprietà dei singoli” (VIROLI 1999: 44).
L’idea dello Stato come strumento del cittadino è antica. Infatti, già Cicerone scriveva: “Soprattutto per garantire la sicurezza della proprietà privata, si costituirono le città e gli Stati. È vero che gli uomini si unirono in società per naturale impulso, ma è anche vero che essi, nella sicurezza delle città, cercarono la difesa e la custodia dei loro beni” (De officiis II, 21). Tuttavia, è solo da un paio di secoli che quest’idea ha assunto la dignità di una vera e propria dottrina politica. Il l. si sviluppa in Europa nel periodo che va dalla Riforma alla Rivoluzione francese, avendo le sue principali espressioni nel giusnaturalismo, nel contrattualismo, in alcuni princìpi affermatisi ai tempi della Gloriosa Rivoluzione, come l’habeas corpus (a garanzia dagli arresti arbitrari) e il parlamentarismo, nella Dichiarazione d’indipendenza (1776) e nelle Dichiarazioni dei diritti (1789 e 1793).
I liberali sostengono l’esistenza di diritti umani universali, inalienabili e antecedenti ad ogni società, i cosiddetti diritti innati, dinanzi ai quali anche il più grande re deve inchinarsi, e vedono nello Stato un prodotto dell’uomo e uno strumento in mano ai cittadini, la cui funzione è quella di farsi garante di quei diritti. Secondo la concezione liberale, lo Stato è un male necessario e bisogna minimizzarlo attraverso la realizzazione di un sistema politico capace di coniugare la massima libertà dell’uomo con la minima ingerenza da parte del governo.
Fra i pensatori liberali, di cui ricordiamo Montesquieu, Smith, Burke, Kant (XVIII secolo), lord Acton, Ricardo, Say, Malthus, Constant, (XVIII-XIX secolo), Comte, Tocqueville e J.S. Mill (XIX secolo), Hayek, Popper, Nozick, Fukuyama, Leoni, Einaudi (XX secolo), prevale la fiducia illimitata nell’individuo e nel libero mercato. In campo microeconomico, il l. sostiene che “l’individuo è il migliore e il solo giudice del suo interesse particolare e che la società ha il diritto di regolare le sue azioni solo quando si sente lesa da lui, o quando ha bisogno del suo aiuto” (Tocqueville, La democrazia in America, I, 5). A livello di macroeconomia, invece, vale la celebre legge di Say, la quale stabilisce che domanda e offerta si bilanciano sempre automaticamente. [Malthus è uno dei pochi a non condividere tale ottimismo e a richiamare l’attenzione sul rischio che l’incremento demografico non sia automaticamente accompagnato da un altrettanto rapido incremento delle risorse.]
13.1. Il pensiero liberale
Secondo H.J. Laski, il liberalismo esprime il punto di vista di una nuova classe sociale, la borghesia. Il cittadino borghese (che sa leggere e scrivere, che conosce la storia e le tradizioni, le basi dell’ordinamento giuridico e amministrativo, la natura e la filosofia, le scienze e le tecniche, l’arte oratoria e politica) sviluppa una coscienza nuova e non accetta più di essere guidato dall’esterno e dall’alto. Presumendo di conoscere i propri interessi e, ritenendo di essere in possesso dei mezzi necessari per soddisfarli, egli rifiuta di essere guidato per mano come un bambino da uno Stato paternalistico e aspira ad essere adulto, libero, autonomo e artefice del proprio destino. Forte tanto nel sapere (la cultura, l’informazione e le conoscenze tecniche sono sempre più controllate da questa nuova classe, che comprende letterati, liberi pensatori e professionisti) quanto nel denaro (crescenti masse di denaro circolano grazie al lavoro e alle iniziative della classe media, che, pertanto, assume un ruolo sempre più determinante in molti settori della società, che prima erano appannaggio della nobiltà), la borghesia prima si confronta con i vecchi padroni, la nobiltà e il clero, e poi li soppianta.
Il liberalismo è legato ad una concezione individualistica della società, per la quale “l’uomo in quanto essere razionale è persona, e ha un valore assoluto, prima e indipendentemente dai rapporti di interazione coi suoi simili” (BEDESCHI 1996: 261). Humboldt e Constant ritengono che il vero protagonista della civiltà e del progresso sia l’individuo e non lo Stato. Partendo dall’assunto che tutto è relativo e opinabile e non esiste il bene assoluto e oggettivo, Kelsen afferma che ciascuno è il miglior giudice di ciò che è bene per lui e non è dato a nessuno di imporgli il proprio punto di vista. Certo, dato che tutti possono sbagliare, la cosa migliore è rimettersi alla volontà dei più. Tuttavia, anche se un valore fosse espresso dalla maggioranza, si tratta comunque di un valore relativo e opinabile, e non può essere imposto ad alcuno. Per Green, è bene tutto ciò che mira a realizzare, nella maggiore misura possibile, le facoltà proprie dell’uomo, tutto ciò che promuove la persona umana e la rende quello che dovrebbe essere: simile a Dio. La proprietà privata va bene e sarebbe augurabile che tutti fossero proprietari.
Per i liberali, in ogni comunità è il soggetto che forgia e determina le decisioni e le preferenze in merito a ciò che rende una vita degna di essere vissuta; tutte le azioni sono intenzionali e significative, e solo a queste condizioni esse possono essere comprese; le norme di comportamento e i valori etici appartengono unicamente alla sfera privata e non devono essere argomento di discussione e tanto meno di giudizio pubblico. Il protagonista della società liberale è l’individuo, che aspira ad essere lasciato libero da ogni ingerenza dello Stato, libero di perseguire i propri interessi e di seguire i propri impulsi, anche quelli egoistici, nella convinzione che, così facendo, il mercato si vivacizza, circola più denaro e aumenta il benessere per tutti. I liberali si battono a favore delle libertà di (di religione, parola, stampa, riunione, associazione, iniziativa economica, partecipazione al potere politico) e delle libertà da (dal bisogno, dalla paura, dall’ignoranza), nella convinzione che la libertà d’iniziativa individuale sia cosa buona e desiderabile. Sotto questo aspetto, liberalismo e DD corrispondono: per entrambi il punto di partenza è l’individuo ed entrambi puntano sull’individuo autonomo e responsabile. È esattamente il contrario di quanto affermano il comunitarismo e l’organicismo.
Bruno Leoni, che, insieme a Einaudi, è uno dei più prestigiosi esponenti del liberalismo italiano contemporaneo, agita i princìpi del liberalismo in opposizione al socialismo. A parer suo, il socialismo è ordinato, grigio, noioso e negativo in quanto suscita negli strati più deboli della popolazione sentimenti di invidia nei confronti della classi più elevate, poi promette agli invidiosi una vita agiata indipendentemente dai loro meriti. Al contrario, la libertà liberale è caotica, certo, ma stimolante e produttiva, come la folla: anche la folla è caotica, ma in essa ogni individuo sa dove va e cosa vuole. L’ordine socialista è come una parata militare: in essa ogni individuo deve andare dove gli hanno ordinato di andare (RICOSSA, Prefazione a LEONI 1997: pp. 7-20 ).
13.2. Dal «primo uomo» alla democrazia liberale: il pensiero di Fukuyama
Appellandosi all’autorità di Hobbes e Hegel, Francis Fukuyama parla del «primo uomo» ossia dell’uomo allo stato di natura e afferma che, a differenza degli animali, quest’uomo poteva avvertire un desiderio di gloria (thymòs), che lo induceva a mostrarsi coraggioso e a rischiare la propria vita (Fukuyama parla di megalotimia) pur di cattivarsi il riconoscimento degli altri (1996: 164ss). Ma non tutti avvertivano tale bisogno, anzi, la maggior parte degli uomini si accontentavano di essere riconosciuti come eguali (isotimia). Secondo Fukuyama, tutto ciò che c’è di buono nella storia è stato creato proprio da quegli uomini che desideravano essere riconosciuti migliori (1996: 318), i quali, giustamente, sono diventati i padroni del mondo. Per Fukuyama, la democrazia liberale (DL) costituisce la forma di governo migliore possibile: “oggi noi riusciamo a malapena a immaginarci un mondo migliore del nostro, o un futuro che non sia sostanzialmente democratico e capitalista” (1996: 67). Insomma, siamo giunti al capolinea e possiamo decretare la “fine della storia” (1996: 9).
13.3. Liberalismo e democrazia
Il liberalismo “nel corso di questi due secoli, non è stato e non è sinonimo di democrazia” (PONT 2005: 110), perché non è una dottrina egualitaria. Nel pensiero liberale, “libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel senso che non si può attuare pienamente l’uno senza limitare fortemente l’altro” (BEDESCHI 1996: 273). Il l. discorda da Rousseau, il quale sostiene che la natura ha fatto gli uomini uguali e la società civile li rende disuguali, mentre concorda con Nietzsche, secondo il quale per natura gli uomini sono diseguali, mentre la società, con la sua morale del gregge, li rende eguali.
Le dottrine egualitarie esigono che tutti abbiano abbastanza e nessuno abbia troppo e, perciò, tendono a fissare dei limiti minimi e massimi di reddito. Il liberalismo, invece, concepisce la vita sociale come una grande competizione, dove vince il più capace e dove chi più ha è migliore. Così, la povertà diventa un vizio e i poveri sono cittadini di serie B. Le due sole uguaglianze ammesse dal liberalismo sono quella di metter tutti i concorrenti nelle stesse condizioni di partenza e quella che tutti devono essere uguali di fronte alla legge. Ma sono entrambe illusorie. Infatti, la prima è solo un enunciato teorico e viene usata come alibi per giustificare le disuguaglianze d’arrivo; la seconda è smentita dal fatto che, anche ai giorni nostri, i diritti dei cittadini sono ampiamente condizionati dalla nascita e dalla disponibilità economica.
In linea di massima, il liberalismo è favorevole alla divisione dei poteri, alla Costituzione e al federalismo, ma non necessariamente alla democrazia. Un governo liberale, infatti, può essere anche una monarchia costituzionale o parlamentare, oppure un’oligarchia o un’aristocrazia, purché rispetti la libertà dei singoli. L’unica forma di democrazia concepibile per il liberalismo è quella rappresentativa, che dev’essere praticata nel rispetto dei diritti delle minoranze ed evitando che degeneri in una tirannia della maggioranza, e non importa che il suffragio sia universale: potrebbe andare bene anche il suffragio ristretto, di tipo censitario.
DD e liberalismo devono, invece, essere ritenuti incompatibili, perché sostengono due diverse concezioni dell’individuo. Mentre, infatti, l’individuo liberale compete in un mondo pieno di insidie e vede nello Stato un male necessario a tutela dei suoi diritti, l’individuo democratico è una parte attiva e responsabile di quella libera associazione che è il popolo e vede nello Stato un insostituibile e prezioso alleato. Inoltre, il liberalismo tollera la disuguaglianza delle persone alla nascita, la DD no.
13.4. Lo Stato minimo secondo Robert Nozick
Il punto di partenza di Nozick è costituito dagli individui, che sono tutti unici e tutti diversi “per temperamento, interessi, capacità intellettuale, aspirazioni, inclinazione naturale, ricerche spirituali e genere di vita che desiderano condurre” (NOZICK 2000: 315). Secondo lo studioso, “Ci sono solo individui, individui differenti, con vite individuali differenti. Usando uno di questi individui a beneficio di altri, si usa lui e si reca beneficio ad altri […]. Usare una persona in questo modo non rispetta né tiene in sufficiente considerazione il fatto che si tratta di una persona separata, che la sua è l’unica vita che ha da vivere” (2000: 54).
Il liberalismo di Nozick è rigorosamente individualistico, nel senso che concepisce l’individuo come un assoluto, il punto di origine e il fine di tutti i fatti sociali. I collettivi sono solo somme di individui. Lo Stato è un derivato degli individui e il suo ruolo è solo strumentale e di servizio alle diverse esigenze degli individui. Ora, uno Stato è buono o cattivo a seconda della persona che lo giudica. Ne consegue che non può esserci una società ideale per tutti: “lasciamo cadere il falso assunto che esiste un solo genere di società migliore per tutti” (NOZICK 2000: 323). Alla fine, lo Stato migliore è quello che interviene il meno possibile nella vita dei cittadini. Insomma, minimo potere allo Stato, massima libertà all’individuo. La teoria dello Stato minimo è dettata da una concezione ottimistica dell’individuo, che, per Nozick, è innanzitutto «persona», un essere cioè capace di autogestirsi e di dare un senso compiuto alla propria vita. Ebbene, in quanto persona, ogni individuo è uguale ad ogni altro.
Per Nozick, lo Stato dev’essere una sorta di «guardiano notturno», che deve interferire il meno possibile coi progetti di vita dei singoli individui e limitarsi a garantire loro condizioni di sicurezza. “Le nostre conclusioni principali sullo stato – scrive Nozick – sono che uno stato minimo, strettamente limitato alle funzioni di protezione contro violenza, furto e frode, di tutela dei contratti ecc., è giustificato; che qualsiasi tipo di stato più esteso finisce con il violare i diritti delle persone a non essere costrette a fare certe cose, ed è ingiustificato; e che lo stato minimo è auspicabile oltre che giusto” (2000: 17). “Lo stato minimo – prosegue il Nostro – ci tratta come individui inviolabili, che agli altri non è lecito usare in certi modi come mezzi, o arnesi o strumenti o risorse; ci tratta come persone dotate di diritti individuali con la dignità che ciò comporta. Trattandoci con riguardo, rispettando i nostri diritti, ci permette, individualmente o con chi vogliamo, di scegliere la nostra vita e di realizzare le nostre aspirazioni e la concezione che abbiamo di noi stessi, tanto quanto possiamo, con l’aiuto della cooperazione volontaria di altri individui dotati della stessa dignità” (2000: 337).
Bisogna aggiungere che, al pari di Locke, anche l’individuo di Nozick è un individuo-proprietario. Ebbene, lo Stato minimo deve avere un solo compito: garantire i diritti dei cittadini, primo fra i quali quello di proprietà. Nozick è contrario allo Stato assistenziale e ad ogni forma di eguaglianza giuridica, compresa l’eguaglianza di opportunità.
13.5. Vantaggi e limiti
A livello generale, il principale vantaggio del pensiero liberale è quello di avere reso possibile la proclamazione degli inalienabili diritti umani, di cui c’è evidenza nelle nostre Costituzioni e nelle Dichiarazioni democratiche. Semmai si può recriminare sulla discrepanza fra ciò che si proclama a parole e la realtà concreta che si dipana davanti si nostri occhi. In buona sostanza, i princìpi liberali rimangono ampiamente inosservati. In particolare, in nessuna società viene praticata l’uguaglianza di opportunità dei cittadini, mentre continuano ad esistere i pregiudizi e le differenze per nascita. Si continua a sbandierare il principio della meritocrazia, ma poi non si spiega perché debba essere meritorio nascere da una famiglia piuttosto che in un’altra, in un paese piuttosto che in un altro. Il popolo entra in scena, come corpo unitario, solo nel momento in cui si reca alle urne, e poi, praticamente, scompare. Espressa la sua «volontà generale», esso si eclissa e al suo posto rimangono i rappresentanti eletti che esercitano, essi soli, il potere politico.
Al di là dei princìpi puramente ideologici, il liberalismo si afferma in difesa della proprietà privata della classe borghese, che viene elevata a diritto naturale dell’uomo, mentre si comincia ad attribuire allo Stato il ruolo di gendarme, che vigila affinché tale diritto non venga violato. Ciò può essere visto come vantaggioso dalla classe borghese, ma non dalla classe operaia e dai salariati.
Sotto questo aspetto, il l. è stato fatto oggetto di critiche interne ed esterne. Fra le prime, spicca la critica di “aver concepito il diritto alla proprietà privata come il diritto per eccellenza” (BEDESCHI 1996: 267). Secondo Constant, per esempio, la proprietà privata non è un diritto di natura “perché senza l’associazione che le dà una garanzia essa non sarebbe che il diritto del primo occupante, in altri termini il diritto della forza, cioè un diritto che non è tale” (BEDESCHI 1996: 268). Anche secondo J.S. Mill, la terra è “l’eredità originaria di tutta la specie umana” e nessuno può vantare diritti esclusivi su di essa. La proprietà privata può essere giustificata solo in rapporto al lavoro: io posso dire «questa terra è mia» solo e nella misura in cui la coltivo e la curo avvalendomi delle mie braccia e del mio cervello. Di fatto, invece, il l. consente la sussistenza della proprietà e del reddito anche indipendentemente dal lavoro e, dunque, considera lecito che una persona possa essere ricca anche senza lavorare.
Le principali critiche esterne provengono dall’area social-comunista e dalla Chiesa romana (si vedano le singole voci).
18. Teocrazia
15 anni fa
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