Il capitalismo è un complesso sistema economico-finanziario che oggi domina sul mondo. Essendo capace di esercitare una determinante influenza sulla politica e sugli stili di vita delle persone, risulta pressoché impossibile restare indifferenti di fronte ad esso. E, in effetti, oggi i popoli delle Terra si possono dividere in due parti, a seconda di come si rapportano col c.
14.1. Definizione e generalità
Il termine c. non venne mai usato da Marx, ma fu introdotto da Werner Sombart nel 1902 con la sua opera Il capitalismo moderno, per indicare un sistema produttivo dominato “dal principio del profitto e dal razionalismo economico” (SOMBART 1967: 165).
“Il capitalismo differisce fondamentalmente dal sistema economico feudale-artigianale, nel quale le stesse persone sono lavoratori e allo stesso tempo posseggono i mezzi di produzione” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 29). L’artigiano è uno che lavora in autonomia, possiede la sua bottega e i suoi arnesi e usa la propria testa e le proprie mani per cercare lavoro, produrre e vendere. Il capitalista invece possiede i mezzi di produzione e affida ad altri l’esecuzione manuale delle mansioni. “A differenza quindi del lavoro artigianale, il capitalismo distingue il lavoro direttivo da quello esecutivo” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 39).
Quando si parla di c. si deve pensare a tante cose (proprietà privata dei mezzi di produzione, Stato minimo, città, moneta, borghesia, classe imprenditoriale, lavoro salariato, mercato, libera concorrenza, profitto) e perciò non deve stupire che non sia facile definirlo in poche parole.
“Per capitalismo – scrive H. Kelsen – intendiamo un sistema economico caratterizzato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla libera iniziativa e dalla competizione: un sistema economico, quindi, che presuppone la libertà economica, cioè l’assenza di interferenze dirette dal governo nella vita economica” (1995: 335).
“La società capitalista scarta tutto ciò che non può servire al profitto” (CREAGH in SCHIAVONE 1997: 221) e rifiuta tutto ciò che non rientra nel quadro di un freddo calcolo razionale di utilità. “Il capitalismo così come spinge alla produzione fine a se stessa spinge anche al consumo fine a se stesso” (BOOKCHIN 1995: 116).
L’etica capitalistica è un’etica di mercato, i cui principali principi ispiratori sono la produzione e il consumo e il cui fine ultimo è il massimo profitto nel più breve tempo possibile. Il c. si basa sulla massima libertà d’iniziativa e vuole che lo Stato interferisca il meno possibile negli affari dei cittadini, perché ritiene che il mercato libero non solo sia in grado di organizzarsi da sé, in modo spontaneo, ma sia anche in grado di produrre una crescita ininterrotta della società. “«È permesso tutto quello che non è espressamente vietato», questo è il motto del diritto economico moderno” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 30). “Non è mai successo prima che la società abbia affidato quasi completamente al mercato il compito di determinare i propri valori e i propri modelli di comportamento” (THUROW 1997: 90).
“La libertà economica è un requisito essenziale per la libertà politica” (FRIEDMAN 1981: 8). Partendo da questo presupposto irrinunciabile, il c. costruisce il proprio sistema politico, che si muove in una prospettiva borghese e ruota intorno ai principi della produzione e del profitto. “La società capitalista scarta tutto ciò che non può servire al profitto” (Greagh 1997: 221).
14.2. Capitalismo e Democrazia
Il c. è un sistema economico che può trovare realizzazione in diversi ordinamenti politici, siano essi di tipo democratico o autocratico. Sta di fatto che tutte le democrazie contemporanee sono di tipo capitalistico. Va notato però che si tratta immancabilmente di sistemi DR e che non esiste nessun esempio di coabitazione di c. e DD. Con ciò non intendo affermare che il c. sia incompatibile con la DD. Penso tuttavia che la DD potrebbe tollerare un tipo di c. assai diverso rispetto a quello a noi noto, un c. che sia basato non più sui rapporti direttore/esecutore o imprenditore/salariato, ma sulla partecipazione responsabile di tutti, ciascuno secondo le proprie capacità e competenze; non più sulla pubblicità commerciale e sul consumismo, ma sull’informazione e sulla conoscenza.
Il fatto che la DR sembra essere il sistema politico maggiormente congeniale e funzionale per l’economia capitalistica non significa che il c. sia democratico. Per un capitalista il governo ideale è quello che è in grado di garantire le condizioni di sicurezza, interna e internazionale, tali che ciascun imprenditore, finanziere o speculatore possa liberamente perseguire le proprie iniziative economiche e realizzare profitti senza limiti prestabiliti e in piena sicurezza. Alla domanda «chi deve comandare?» il capitalista si dichiarerebbe indifferente sul «chi», purché si tratti di un governo debole nei confronti degli imprenditori e forte nei confronti delle organizzazioni sindacali e di tutti quei movimenti che vogliono limitare la libertà di mercato o attentare alla proprietà privata.
Partendo da queste condizioni, si può ben comprendere perché nessun sistema capitalistico può essere veramente democratico. “La democrazia capitalistica permetterà libertà di parola, di associazione, anche di elezioni, fino a che nessuna di queste libertà è presumibile possa minacciare il capitalismo; non appena la minaccia diverrà seria, tutta la forza della legge verrà messa in azione per reprimere il pericolo” (LASKI 1976: 222).
14.3. Capitalismo e Stato
“Il mercato, e soltanto il mercato, è sovrano” (THUROW 1997: 3). Ma non è così. “Se lasciati a se stessi, invece di muovere verso un equilibrio, i mercati finanziari possono arrivare agli estremi e alla fine crollare” (Soros 2002: 105). La presenza e l’intervento dello Stato devono dunque ritenersi fondamentali. Questo è quanto ci insegna l’esperienza degli ultimi decenni, che il mercato lasciato a se stesso è instabile e pericoloso, genera ricchezza, ma anche profonde crisi economico-finanziarie, l’ultima delle quali è in corso mentre scrivo.
Un capitalismo senza regole (deregulation) fa crescere a dismisura i consumi fino a superare le capacità produttive del paese e a richiedere l’attuazione di una politica d’indebitamento. Ciò è quanto è avvenuto negli Usa e ben si sposa con l’incontenibile tendenza della Cina a conquistare nuovi mercati. “Gli americani consumano più di quanto producono, consentendo ai cinesi di produrre più di quanto consumino” (Ruffolo 2008: 231).
Se il c. potesse fare a meno dello Stato se ne libererebbe volentieri, affinché, alla fine, rimanga il libero mercato sovrano. Ma il c. ha bisogno dello Stato e, in pratica, non esiste un c. allo stato puro, come non esiste un mercato totalmente libero e del tutto esente da condizionamenti politici. Così, da più parti oggi si tende e dare per scontato il fatto che, da solo, il c. non sia in grado di “esaurire tutta la gamma delle motivazioni e aspirazioni umane” e che abbia bisogno di essere in qualche modo corretto dall’intervento politico dello Stato (cfr. TURNER 2002: 414-9). “Il capitalismo liberista può essere una forza benefica per la prosperità, le libertà politiche e le prospettive di pace, ma solo se è accompagnato da atti politici e da politiche concrete che elettori e governanti sono liberi di adottare o rigettare. E tra le politiche che occorre scegliere vi sono quelle specificamente mirate a ridurre l’insicurezza e le disuguaglianze che il capitalismo stesso indubbiamente crea” (TURNER 2002: 436).
14.4. I due modelli di capitalismo
Secondo M. Albert, possiamo distinguere due principali modelli di c., quello anglo-americano e quello europeo, i quali, dopo la caduta del comunismo, si contendono il dominio del pianeta. Il primo privilegia le società finanziarie, i mercati azionari e la speculazione, che, come padroni invisibili, condizionano le imprese, senza coinvolgimento diretto e senza partecipazione responsabile al processo produttivo. Il denaro degli azionisti decide la sorte delle aziende, che vengono considerate alla stessa stregua di una qualsiasi merce, e si pone come fine anziché come semplice mezzo. Gli speculatori non sono interessati né alla qualità del prodotto, né alle sorti dell’impresa, ma solo al proprio profitto, che deve essere rapido. Lo Stato deve consentire la libera iniziativa, imporre poche tasse agli speculatori che si arricchiscono senza lavorare e risparmiare sulle spese sociali.
Il modello europeo si fonda invece direttamente sull’impresa e sul suo processo produttivo. L’impresa svolge un importante ruolo sociale e appartiene ad azionisti stabili, che sono interessati alla sua produzione, e non può essere venduta come una semplice merce. Il denaro è un mezzo e il profitto perseguito non è necessariamente rapido, ma anche a lungo termine. Lo Stato è chiamato a intervenire a seconda delle necessità sociali e ad imporre un carico fiscale proporzionato al reddito. È il cosiddetto “capitalismo dal volto umano” (MALLE 1998: 36), che è particolarmente rappresentato dal modello svedese.
In ogni caso, in una società capitalistica, il potere è nelle mani dei più ricchi. Il ricco è proprietario di aziende, dove lavorano migliaia di cittadini, il che gli conferisce la facoltà di ricattare i politici e orientarne le scelte; è proprietario di case editrici e testate giornalistiche, di reti televisive e portali internet, attraverso cui controlla l’informazione; è proprietario di denaro, col quale può anche condizionare la giustizia (tutti sappiamo che spesso le cause vengono vinte non da chi ha ragione, ma da chi può permettersi gli avvocati migliori).
Solo il potere religioso potrebbe efficacemente opporsi alla plutocrazia capitalistica anteponendo i valori etici dell’individuo (o della persona) a quelli del denaro, ma, il più delle volte, anche le chiese appaiono sensibili ai propri interessi materiali e, almeno di fatto, sostengono i valori del capitalismo. Così la logica plutocratica domina incontrastata sul mondo.
14.5. Storia
Nel corso del mesolitico e fino agli inizi del neolitico, i rapporti fra le famiglie e fra i clan erano regolati e scanditi dallo scambio di doni, il cui scopo era duplice: assicurare rapporti di buon vicinato e attuare una forma, per quanto grossolana, di redistribuzione delle risorse (Ruffolo 2008: 6-7). Non solo gli uomini preistorici, ma anche gli antichi ignorano l’idea di c., sostanzialmente perché essi tendono a credere che ogni risorsa della terra appartenga a un dio o ad un suo rappresentante e si comportano di conseguenza.
I primi segni di c. incipiente compaiono insieme alla diffusione dell’agricoltura e della guerra, l’introduzione della proprietà privata, il lavoro schiavista, le attività commerciali e imprenditoriali, anche se sono ancora assenti i tratti tipici del c., ovverosia l’accumulazione in vista di un profitto e un’economia autonoma rispetto alla società.
Così, l’antico Egitto è considerato proprietà del faraone, il quale dispone ai suoi funzionari di assegnare un lotto di terra per ogni gruppo familiare, che provvede poi a coltivarla, tenendo per sé la parte del raccolto necessaria per la sussistenza e versando il resto nei magazzini del legittimo proprietario, ossia il faraone stesso. Non molto diversa è la situazione nei piccoli e grandi imperi della Mesopotamia, che vanno nascendo da azioni di conquista militare. In questo caso, i condottieri vittoriosi si impadroniscono della terra e la dividono alle famiglie dei guerrieri, che se ne prendono cura: i padroni sono i conquistatori, lo sono per volere di in dio e lo rimangono fino a che hanno forza sufficiente per difendersi da altri possibili pretendenti. In pratica si possono distinguere due tipi di proprietà: quella che un gruppo conquista e conserva con le sole proprie forze, per esempio il territorio di un clan o di una tribù, e quella che si riceve dal re a seguito di una campagna militare vittoriosa, sia pure con l’impegno di pagare un tributo al sovrano.
Il ceto aristocratico è pago di possedere schiavi e terreni e non pensa a reinvestire i profitti, né ad entrare in una libera competizione di mercato, cosa che li declasserebbe al livello di imprenditori, commercianti e parvenu. Ne deriva la bassa reputazione di cui sono fatti oggetto le persone arricchite col proprio lavoro, qualunque esso sia. E infatti, nel mondo greco-romano antico e per buona parte del Medioevo, le attività commerciali non godono di molto credito sociale e a volte sono apertamente disprezzate.
Questo stato di cose si prolunga fino alla costituzione delle Repubbliche marinare, la cui economia è largamente legata a traffici commerciali di ogni tipo. I grandi mercanti arricchiti iniziano a costruire le loro lussuose dimore tutt’intorno alle chiese vescovili, richiamando uno stuolo di piccoli artigiani e commercianti. È così che si vanno costituendo i primi agglomerati urbani, chiamati borghi, che ben presto vengono circondati da mura. Inizia l’ascesa della borghesia. Venezia, Pisa, Genova e Amalfi diventano delle nuove Atene, con le loro flotte, che dilagano nel Mediterraneo e guardano ad Oriente, con i loro rematori-cittadini, le loro politiche di potenza e la stessa accesa rivalità nei confronti delle altre Repubbliche e delle altre città che nel frattempo vanno sorgendo.
Dopo la scoperta dell’America il baricentro del capitalismo si sposta verso altri paesi europei, come il Portogallo, la Spagna, l’Olanda e l’Inghilterra, le cui flotte solcano le acque degli Oceani e portano i propri uomini in ogni angolo del pianeta, gettando così le basi per la rivoluzione industriale e facendo registrare, tra il XVIII e il XIX secolo, un’irresistibile ascesa del capitalismo, che raggiunge il culmine nel secolo seguente, il cosiddetto secolo americano.
Dopo la caduta del comunismo, il capitalismo rimane l’unica forza valida in campo e domina incontrastato la scena economica mondiale, né si intravedono alternative, almeno così si dice. “È improbabile che, nei paesi democratici, il capitalismo e l’economia di mercato saranno sostituiti da qualcos’altro […]. Non c’è in vista nessuna alternativa che si possa dimostrare superiore a un’economia prevalentemente di mercato (DAHL 2000: 175-181).
Il c., che si in precedenza si era giovato di quelle che conosciamo come «prima», «seconda» e «terza» rivoluzione industriale, continua a trarre un formidabile sostegno dalla cosiddetta «quarta rivoluzione industriale», che ha caratterizzato gli ultimi decenni, fino ai nostri giorni, e che si è potuta realizzare grazie alla diffusione dell’informatica e della globalizzazione che, consentendo una forte accelerazione dei cambiamenti strutturali dell’economia di mercato, ha fatto sì che si cominciasse a parlare di «turbo-capitalismo». “Il capitalismo attuale è definito «turbo-capitalismo» perché oggi i cambiamenti strutturali sono fortemente accelerati dalla diffusione dell’informatica e dalla globalizzazione” (LUTTWAK, CREPERIO VERRATTI 1996: 5).
Oggi la Cina è un paese a forte crescita economica, è anche il primo paese creditore degli Usa, e molti già intravedono in essa il futuro G1. Il XXI secolo potrebbe anche essere cinese, ma di chiunque sarà, sembra certo che si rischia di superare i limiti di sostenibilità della crescita capitalistica, che sono legati in parte alla finitezza delle risorse e alle capacità di smaltimento delle emissioni e dei rifiuti, in parte ai problemi correlati con le disuguaglianze sociali, la crescente domanda di accesso alle ricchezze da parte di masse escluse (Ruffolo 2008: 260). Così, alla fine, il c. rischia di affossare se stesso. Oppure riuscirà a sopravvivere, ma solo se saprà trovare una valida risposta ai limiti suddetti. In ogni caso, esso dovrà giocare la sua partita con se stesso. Secondo Giorgio Ruffolo, alternative vere e proprie al c. non se ne intravedono e l’unica opzione possibile, oltre all’autoannientamento, rimane quella di apportare modifiche e correttivi al sistema presente (2008: 261-79).
14.6. La Borghesia
Col termine Borghesia ci si riferisce ad un particolare ceto sociale, che, affacciatosi in Europa agli inizi del secondo millennio d.C., finisce per caratterizzare la società moderna e contemporanea. Inizialmente i borghesi sono coloro che risiedono in città (nel borgo), in contrapposizione ai nobili, che vivono nelle campagne. È solo a partire dalla Rivoluzione francese che la borghesia si affianca, come alternativa positiva, all’aristocrazia. Per la prima volta si comincia a ritenere che non solo la nascita o il sangue, bensì anche i meriti fanno i «migliori»: anche i meriti stanno alla base delle carriere e delle ricchezze. È così che i ricchi per merito cominciano ad affiancarsi ai ricchi per nascita, cioè ai nobili. Nell’Ottocento il ceto borghese è ben definito e consolidato. Esso indica quella fetta di popolazione che è impegnata a produrre denaro, quella che gli anglosassoni chiamano middle class, alla quale viene contrapposta la classe contadina, che produce beni materiali di consumo.
14.7. Il capitalismo liberale
La borghesia ha generato il capitalismo liberale che oggi domina incontrastato il pianeta e deve fare i conti solo con se stesso. Rispetto al sistema economico antico-feudale, il c. presenta poche affinità e molte differenze. Tra le affinità, dobbiamo ricordare l’uso della forza. Anche gli Stati liberali prendono origine da azioni di conquista e devono difendersi con la forza. Ma le differenze sono nettamente prevalenti. Solo i paesi più ricchi, infatti, dispongono di armi così sofisticate da non temere attacchi di guerra da parte di nemici esterni, oltre che di un sistema di polizia tale da proteggere discretamente i cittadini dal rischio di azioni criminali. Un solido sistema assicurativo, poi, provvede a garantire un equo indennizzo a quanti abbiano subito danno non solo a seguito di azioni di terzi, ma anche a causa di eventi naturali. Numerose imprese economiche e produttive danno lavoro a masse di dipendenti, di operai e salariati. Il diritto è ordinato in modo da compensare i cittadini da eventuali torti subiti e tutelare i loro averi. Ma questo è solo ciò che vuole fare apparire: la realtà, come vedremo, è un’altra.
14.8. Una società duale
Oggi, nei paesi capitalisti, è possibile che una sola persona possieda quei beni o quei mezzi di produzione (terre, industrie, servizi, imprese artigianali, commerciali e finanziarie) che in precedenza potevano appartenere solo ad una collettività, e possa disporre di un patrimonio economico che basterebbe a garantire la sussistenza a milioni di persone. In un paese capitalista nessuno si chiede se la fortuna del grande imprenditore sia il frutto di meriti personali o di truffe, inganni, rapine o sfruttamenti, così come nessuno si chiede se il povero debba la sua condizione a limiti personali o a cause esterne. In un paese capitalista a nessuno interessano i princìpi di giustizia: contano solo i fatti e i fatti dicono che chi ha più soldi è più bravo e chi è povero è un inetto.
Conseguentemente, al ricco sono concessi diritti negati al povero, come quello di esercitare il potere economico, di fare la scalata al potere politico, di avere maggiore accesso alle fonti di informazione e nei mass media, di permettersi i migliori consulenti finanziari, la migliore assistenza legale e sanitaria, e tante altre cose, che normalmente sono precluse ai poveri. Anche se apparentemente la legge è uguale per tutti, è evidente che il ricco può servirsi della legge a proprio vantaggio più di quanto riesca a fare il povero, e farsi forte del diritto al fine di difendere i suoi interessi e le sue proprietà.
I proprietari dei mezzi di produzione abitualmente affidano ad altri l’esecuzione manuale delle mansioni e spesso vivono di rendita e senza la necessità di svolgere alcuna attività lavorativa. La differenza con il sistema antico-feudale è netta: allora il proprietario doveva contribuire personalmente al buon andamento dei suoi affari, ora può limitarsi a raccogliere i frutti, come fa, per esempio, l’azionista, che nemmeno conosce la realtà produttiva, di cui egli in parte è padrone; allora l’artigiano doveva usare la propria testa e le proprie mani per cercare lavoro, produrre e vendere, ora l’imprenditore può programmare a tavolino le mansioni da assegnare ai singoli lavoratori salariati. Ne risulta una distinzione, non dichiarata ma di fatto, fra cittadini di serie A e cittadini di serie B.
14.9. Lo Stato minimo
Una volta ottenuta la protezione della legge, il capitalista spera di essere lasciato libero di assumere ogni iniziativa, nella convinzione che le sue capacità imprenditoriali, il suo fiuto e la sua genialità possano aprire nuovi mercati, creare nuovi posti di lavoro, incrementare il benessere e l’utilità media, ed ecco allora che pretende la massima libertà dell’individuo e la minima ingerenza dello Stato. Uno Stato minimo ha poche leggi e tutte finalizzate a garantire la sicurezza dei cittadini, il rispetto dei loro contratti commerciali e la tutela delle loro proprietà private. Non solo esso non deve ostacolare la corsa all’arricchimento di alcun cittadino, ma deve anche favorirla, per esempio non esercitando un carico fiscale progressivo, nella convinzione che sono i ricchi a creare il progresso e a portare avanti il mondo. Meglio ancora, per il capitalista, è un unico Stato mondiale o una confederazione mondiale di Stati, sempre «minimi», che vivano in pace e dove tutto quello che non è espressamente vietato dalla legge sia da intendersi come lecito.
14.10. La globalizzazione
È in questo contesto che si sviluppa la cultura della cosiddetta globalizzazione. Guardando al mondo come ad villaggio, i grandi imprenditori individuano i luoghi dove la manodopera è più a buon mercato e là fanno produrre le loro merci, che poi rivendono dove c’è gente disposta a pagarli di più. “I capitalisti si arricchiscono spostando servizi, beni e risorse naturali da dove costano meno a dove sono più cari, e spostando la produzione dei beni da dove è più costosa a dove lo è meno” (THUROW 1997: 181). Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo. “Per la prima volta nella storia dell’umanità, qualsiasi prodotto può essere ormai fabbricato e venduto ovunque. Nell’economia capitalistica, questo vuol dire che ogni merce e ogni attività produttiva saranno realizzate là dove i costi sono più bassi, mentre i prodotti o servizi finali potranno essere venduti là dove i prezzi e i profitti sono più alti. Minimizzare i costi e massimizzare i ricavi: ecco, nella sostanza, la massimizzazione del profitto, ossia il nucleo del capitalismo” (THUROW 1997: 124).
14.11. La libera concorrenza
A parole il capitalista accetta anche la libera concorrenza, a garanzia che ciò contribuirà a selezionare gli uomini e i prodotti migliori, il che tornerebbe a beneficio del consumatore. In realtà egli è disposto a rispettare le regole della concorrenza solo quando è più forte degli altri e può schiacciarli, ma le teme in tutti gli altri casi. Così, quando ci sono più imprese di pari potenzialità, che producono lo stesso prodotto, temendo di danneggiarsi facendosi concorrenza, esse tendono a creare trust o cartelli, ovvero condizioni di monopolio o oligopolio, che finiscono per favorire il capitalista e danneggiare il consumatore. Nel concreto, è raro che un paese capitalista applichi pienamente la libera concorrenza, come vorrebbe invece lo spirito del libero mercato.
14.12. La figura del consumatore
Nel «libero» mercato si muovono due figure chiave, che sono l’una speculare dell’altra. Della prima abbiamo parlato: è la figura dell’imprenditore o finanziere. La seconda figura è quella del consumatore.
In teoria il c. vuole che anche il consumatore venga lasciato libero di fare come meglio crede i suoi acquisti. Di fatto, tuttavia, nemmeno questa libertà viene rispettata e il consumatore in realtà è continuamente bersagliato da messaggi di ogni tipo, che lo orientano in certe direzioni, che poi sono quelle maggiormente gradite agli imprenditori e ai politici. Oggi in un paese capitalista, per es. in Italia, è possibile prevedere in buona misura ciò che un neonato farà nel corso della sua vita, basandosi unicamente sulla sua famiglia e sul luogo ove essa risieda. Per esempio, per un bambino che nasca a Udine, si può prevedere che egli verrà battezzato, che frequenterà la scuola dell’obbligo, che cercherà di inserirsi nel mondo del lavoro scegliendo l’attività meno rischiosa e più remunerativa, che acquisterà un certo tipo di prodotti secondo le sue disponibilità economiche e secondo le pressioni pubblicitarie, che si sposerà e metterà al mondo uno o due figli, sui quali coltiverà dei progetti finalizzati a portarli più in alto di quanto lui stesso sia stato in grado di giungere, che farà di tutto per dare agli altri la migliore immagine di sé nella convinzione che ciò lo aiuterà a far quattrini, che esibirà i segni della sua ricchezza come prove evidenti delle sue qualità e che si preoccuperà anche di edificare un monumento sepolcrale adeguato al suo rango affinché, anche dopo morto, gli altri sappiano che egli è stato un grand’uomo.
La società capitalista non si interessa dei reali bisogni dell’individuo, ma solo della produzione e dei consumi, in funzione dei profitti. Così, molti bisogni sono creati dal mondo imprenditoriale, che, dovendo vendere i propri prodotti, investe denaro per inviare al popolo dei consumatori allettanti messaggi pubblicitari per indurli a comprare. E anche quando il consumatore abbia comprato, il messaggio continua a raggiungerlo senza sosta, lo insidia, lo circuisce, lo seduce e, infine, lo induce a fare nuovi acquisti, che spesso sono inutili. Compri oggi e paghi domani con comode rate e senza interessi. Le offerte del mercato appaiono così allentanti e suadenti da indurre il consumatore ad impegnare anche il denaro che spera di guadagnare domani e accettare un rischio che potrebbe costargli molto più caro di quanto immagini.
Il consumatore che acquista a rate dev’essere sicuro almeno di mantenere le entrate attuali, ma guai se si verifica un imprevisto, una disgrazia, una nuova spesa improrogabile. In questo caso egli dovrà ricorrere ad un prestito e, per pagarlo, dovrà stringere ancora la cinghia e sperare che nel futuro gli affari gli vadano sempre meglio. Ma ciò non è scontato: l’imprenditore offre lavoro fino a quando gli conviene e, quando un lavoratore non rende o il prodotto non tira, c’è il rischio di licenziamento e, più passano gli anni, più è difficile trovare una nuova occupazione. A queste condizioni (comprare a rate e non avere la certezza del lavoro), si capisce bene come sia estremamente difficile che un consumatore medio di una società capitalista possa mai essere sereno e felice.
14.13. Le esigenze del mercato sopra tutto
Non solo i bisogni indotti, ma anche quelli più elementari, come l’istruzione e la salute, devono sottostare alla logica del libero mercato e del profitto. Apparentemente c’è libertà di istruzione e di cura, ma solo apparentemente. Prendiamo il mondo della scuola. Le case editrici propongono testi che rispettano le direttive ministeriali, ma che spesso non sono dimensionati alle capacità di apprendimento e ai reali interessi di un ragazzo medio, che dovrebbero essere quelli di imparare a comprendere l’ambiente naturale, economico e politico che lo circonda, in modo da poterci vivere responsabilmente una volta divenuto adulto. Da parte loro, gli insegnanti sono così oberati dalla necessità di rispettare i programmi e di espletare le incombenze burocratiche da non trovare spazi per un adeguato rapporto personale e un’elastica interpretazione dell’opera educativa e formativa. Così, spesso la scuola rimane ai margini dei problemi concreti e quotidiani della vita e non risponde ai reali bisogni dei futuri cittadini, cioè gli alunni, né gratifica le qualità professionali del personale docente.
Non esiste un metodo di valutazione del lavoro degli insegnanti diverso dalla solita legge di mercato, che recita: più alunni si iscrivono in una classe, più l’insegnante è bravo, indipendentemente dai motivi che possono aver indotto l’alunno e i suoi genitori a preferire quella classe. Lo stesso si può dire per la sanità. Non c’è un metodo, per così dire «scientifico», di valutare l’operato di un medico. Quello che conta è il numero di clienti che quel medico riesce a conquistare, non la bontà effettiva delle sue cure; il numero delle sue prestazioni, non la loro qualità. È questa la ragione per cui in una società capitalista si fa poca distinzione tra una prestazione di tipo «scientifico» e una di tipo «magico». Alla fine conta solo la soddisfazione del cliente e il giro di affari che si determina, e così un venditore di illusioni, che riesca a guadagnare un milione di euro all’anno, vale molto di più di un qualsiasi professionista, che ne guadagni centomila. Analoghe considerazioni possono essere fatte per ogni altro campo economico e produttivo. Il programma televisivo migliore è quello che fa più audience, il libro, la rivista, l’automobile, il libero professionista, l’imprenditore, il politico tanto valgono quanto riescono a vendere e a vendersi. Il c. valuta la qualità attraverso la quantità.
Il c. non si pone problemi morali e considera buono tutto ciò che produce un profitto. Non c’è un’etica capitalistica, a meno che non si voglia considerare per tale la cosiddetta etica protestante di weberiana memoria, che vede nel successo e nella ricchezza un segno tangibile dell’approvazione divina e dell’elezione alla vita eterna (WEBER 1996: 213-4). Nella logica capitalistica, non c’è nulla di proibito. Perfino “il crimine è semplicemente un’attività economica tra le altre, che si dà il caso abbia un prezzo elevato (il carcere) nel caso si venga presi” (THUROW 1997: 172). Il c. mira a soddisfare ogni possibile interesse, tanto il più nobile quanto il più perverso e lascia i singoli liberi di stabilire cosa sia bene per sé: “la scelta di essere un criminale è legittima quanto quella di farsi prete” (THUROW 1997: 302). Le attività di tipo mafioso, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione, la pornografia, il traffico di armi, il commercio di organi umani, lo spaccio di droghe, i furti, le rapine, i sequestri di persone, le corruzioni, le concussioni, le truffe di ogni tipo, e ogni altra possibile azione, che ripugnano al senso etico comune, tutto ciò è valutato dal c. secondo il volume di denaro che fa circolare. Senza un codice etico, le società capitaliste vivono interamente immerse nel presente, interessate al profitto immediato, e non si curano delle possibili conseguenze, come l’inquinamento e il degrado ambientale, che lasciano in eredità alle generazioni future.
Per il c. al primo posto viene il mercato e il profitto “L’oro apre tutte le strade. L’oro che apre tutte le strade è diventato il Dio della nazione. C’è un solo vizio, la povertà. C’è una sola virtù, la ricchezza. Bisogna essere ricchi o disprezzati. Se si è effettivamente ricchi, si mostra la propria ricchezza in tutti i mezzi immaginabili. Se non si è ricchi, si vuol diventarlo per tutte le vie immaginabili. Nessuna è disonesta” (Diderot 1967: 263). Dare spazio al mercato, perché ciò produce ricchezza e contribuisce al progresso della società e al benessere delle persone.
Lo stesso progresso tecnologico e industriale è consentito solo nella misura in cui esso sia in grado di offrire nuovi prodotti da commercializzare o lo sfruttamento di nuovi mercati.
Da questo processo di monetizzazione generalizzata non si salva nemmeno l’ancestrale istituto familiare. Anch’esso, infatti, è sottoposto al vaglio di una fredda valutazione economica, la quale stabilisce, per esempio, che i figli non costituiscono più un vantaggio per i genitori, ma solo un onere. “Dal punto di vista dell’analisi economica, i figli sono un bene di consumo di lusso il cui prezzo è in rapida crescita” (THUROW 1997: 35). Secondo questa valutazione, non ci sarebbe più alcun vantaggio ad avere figli e così, anche il più naturale dei processi, il processo generativo, si riduce a puro calcolo.
14.14. Il futuro del capitalismo
Il futuro del c. dipende dai suoi limiti intrinseci e dalle risposte che si troveranno ai seguenti interrogativi. È veramente possibile uno sviluppo illimitato per tutti gli uomini? Dispone la terra delle risorse adeguate in tal senso? È possibile un capitalismo a livello planetario, o bisogna rassegnarsi ad un mondo duale? Come reagirà il Terzo e Quarto Mondo, povero, nei confronti del Primo e Secondo Mondo, ricchi? Il consumismo fine a se stesso è compatibile con le capacità del pianeta di smaltire i prodotti di rifiuto? Può il capitalismo generare felicità? Se il c. dovesse tramontare, quale nuovo sistema sarà in grado di raccoglierne l’eredità? Fino ad oggi una risposta consensuale a questo interrogativo non è stata trovata.
Se Marx ha bollato il capitalismo e ne ha preconizza la fine, Darwin, senza saperlo, ha formulato una teoria che, in un certo senso, può rafforzarlo. La teoria della selezione naturale, infatti, dimostra: primo, che tutti gli esseri viventi sono in competizione tra loro e che sopravvivono solo i più adatti; secondo, che l’uomo discende da forme animali più semplici e rappresenta l’ultimo gradino dell’evoluzione. Partendo da questi presupposti, il darwinismo sociale può affermare che anche nelle società umane vanno avanti i più capaci. Nello stesso tempo, torna in auge l’idea rinascimentale che il destino di ciascuno dipende da se stessi, dalla propria volontà, dai propri meriti. Ebbene, il darwinismo sociale e l’individualismo concorrono a spiegare e a giustificare la competizione capitalistica e riconducono la distinzione tra ricchi e poveri ad un semplice fatto biologico. Adesso le qualità di un individuo si possono misurare con il patrimonio, né si ritiene opportuno porre limiti alla ricchezza di una persona: più uno è ricco e più egli vale.
Oggi c’è chi tende a vedere nel c. la massima espressione possibile dell’esperienza politica, un livello di sviluppo non superabile, il capolinea della storia umana (Fukuyama 1996). Secondo Giuseppe Turani, nonostante tutto, “il capitalismo ci accompagnerà ancora per moltissimo tempo per la semplice ragione che ha dimostrato di funzionare” (2009: 156). Ma c’è anche chi crede che anche il c. dovrà finire. Secondo Severino, per esempio, il capitalismo, prima o poi, “dovrà rendersi conto che distruggendo la Terra distrugge se stesso. E sarà questa coscienza, non la coscienza morale o religiosa, a spingere il capitalismo al tramonto” (1993: 56). “Il capitalismo tramonta, perché è costretto, prendendo coscienza del proprio carattere autodistruttivo... Il nemico più implacabile e più pericoloso del capitalismo è il capitalismo stesso” (SEVERINO 1993: 56-7). “Il «dilemma» del capitalismo è o distruggere «realmente» la Terra, distruggendo quindi se stesso, oppure convincendosi del carattere distruttivo del proprio agire, assumere come scopo la salvezza della Terra e non il profitto, anche in questo secondo caso distruggendo se stesso” (SEVERINO 1993: 84).
14.15. Vantaggi e limiti
L’automazione computerizzata delle nuove catene industriali oggi rende possibile una produzione di massa di beni di consumo largamente accessibili a livello popolare.
Sono migliorate le condizioni di vita delle famiglie, che possono contare su servizi, come l’energia elettrica, il telefono, l’acqua corrente, il riscaldamento e quant’altro, ed è migliorato, in generale, il tenore di vita.
Secondo gli estimatori del c., perfino le vertiginose differenze di reddito fra imprenditori e salariati sono vantaggiose. È un bene, infatti, che l’imprenditore sia disposto ad assumersi tutti i rischi dell’azienda, mentre il dipendente viene adeguatamente ripagato dalla sicurezza di percepire un salario costante comunque vadano le cose. “Chiaramente, vi sono dei vantaggi in un sistema che consente alle persone di addossare ad altri rischi che non desidera correre e permette loro di essere pagati con una somma prefissata, qualunque sia l’esito dei processi rischiosi. Vi sono grandi vantaggi nel permettere l’opportunità di una simile specializzazione nell’accettare rischi; queste opportunità conducono alla tipica gamma delle istituzioni capitaliste” (NOZICK 2000: 268).
Ovviamente non la pensano allo stesso modo i detrattori del c., i quali pongono l’accento sulle seguenti questioni.
Il c. è un sistema ideologico fondato sulla logica della competizione: tutti competono contro tutti e il più forte vince. Si spiegano così gli imponenti apparati militari che, insieme al divario tecnologico, disegnano una geopolitica a due velocità, dominata da pochi paesi ricchi e potenti, primi fra i quali gli Usa, che dettano la propria legge sul resto del mondo, una legge che è fatta di guerre, sfruttamento, rapina, neocolonialismo, neoimperialismo (AA.VV. 2003).
Quando assume un lavoratore, l’imprenditore capitalista deve “vedere in questa assunzione una possibilità di guadagno” (COLE 1976: 182) e deve trascurare ogni altra considerazione etica, umana e ambientale. Il c. non persegue i princìpi di uguaglianza di nascita e di opportunità, né si occupa dei singoli individui allo stesso modo, ma tollera la discriminazione per ragioni di censo. Quindi è un sistema intrinsecamente ingiusto.
Se da un lato, la società capitalistica favorisce il benessere, dall’altro lato essa crea un esercito di sconfitti: tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non riescono ad adattarsi e a competere. Lo spirito del capitalismo è tale da non porsi “il problema del soddisfacimento globale dei bisogni” (ACQUAVIVA 1994: 53). Al capitalista non interessa che la società sia afflitta dalla piaga della disoccupazione o dalla povertà e dalle discriminazioni. “Il fatto che il capitalismo non possa fornire la sicurezza sociale, è – scrive Cole – proprio il miglior argomento che io conosca contro la conservazione del sistema capitalistico” (1976: 188).
Il c. antepone il denaro all’etica e, senza un codice etico, le società capitalistiche vivono interamente immerse nel presente, interessate al profitto immediato.
Nel mondo capitalistico globalizzato avviene che i ricchi “hanno la maggior parte dei vizi dell’aristocrazia senza possederne le virtù” (LASCH 1995: 43). “Sono lieti di pagare per avere delle scuole private e di alto livello, per una polizia privata, per dei sistemi privati di raccolta dell’immondizia, ma sono riusciti a liberarsi, in misura notevole, dall’obbligo di contribuire alle finanze pubbliche” (LASCH 1995: 45). In pratica, sono disposti a pagare servizi privati e tendono ad evadere il fisco, pensano ai loro interessi e si chiudono in un ottuso egoismo. E lo stesso fanno i non ricchi: ciascuno cerca il massimo del profitto per sé e si disinteressa degli altri. L’egoismo domina e la solitudine è in aumento.
Il c. genera vistose disuguaglianze sociali, un’iniqua distribuzione delle risorse. “Ciò che il capitalismo produce è meraviglioso, ma non si può essere contenti del fatto che i soli incentivi capaci di tanta varietà ed efficienza produttiva determinino anche nelle condizioni di vita della gente disuguaglianze gravi e destinate a riprodursi, disuguaglianze che, a loro volta, chiedono poi una protezione politica” (NAGEL 1998: 118).
All’ineguale distribuzione della ricchezza si accompagna l’ineguale distribuzione dei diritti, sicché il ricco esercita anche il potere politico, mentre colui che è emarginato dalla proprietà privata lo è anche dalla partecipazione politica. Infatti, “è poco probabile che cittadini economicamente disuguali siano politicamente uguali” (DAHL 2000: 167). Così larghe fasce della popolazione rimangono escluse dal processo democratico e si generano società duali.
A fronte di questi miglioramenti, però, le industrie, i prodotti chimici, gli scarichi delle macchine, le plastiche e i rifiuti determinano l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e degli alimenti, con conseguenze negative per la salute. Inoltre, lo sfruttamento sconsiderato delle risorse rischia di determinare un’alterazione dell’equilibrio degli ecosistemi, tale da far temere conseguenze negative, e solo in parte prevedibili, circa il futuro del nostro pianeta.
C’è poi da considerare che il profitto del capitalista si può realizzare solo a condizione di una domanda sempre crescente e di un consumismo fine a se stesso. Non si tiene conto della esauribilità delle risorse, dell’inquinamento e del degrado ambientale, dei rischi per la salute e dell’eredità che si lascia alle generazioni future.
18. Teocrazia
15 anni fa
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