mercoledì 26 agosto 2009

6. Elitismo

In un suo studio condotto sulla città di Atlanta, capitale della Georgia, e pubblicato nel 1959, Hunter dimostrava che l’intero potere era saldamente e stabilmente nelle mani di pochi uomini d’affari (SOLA 2000: 238). Un elitista non avrebbe perso tempo a fare un simile studio, dal momento che egli dà per scontato che questa è la regola. L’elitista crede che la stragrande maggioranza di cittadini non sia capace di autogovernarsi e abbia bisogno di guide, e approva e sostiene la società duale. Ecco, per esempio, cosa direbbe Mises: “Che gli uomini non siano tutti uguali, che alcuni siano cioè nati per guidare e altri per essere guidati, è una circostanza che nemmeno le istituzioni democratiche possono modificare” (1990: 97). “L’elemento centrale della dottrina elitista – scrive Rush – è che in qualsiasi sistema politico è una minoranza della popolazione a prendere le decisioni fondamentali” (1994: 70). Gli elitisti partono da questa constatazione: tutte le società della storia sono «duali», sono cioè divise cioè in una minoranza che governa e una maggioranza che è governata. E concludono: «è bene che sia così e non può essere che così».

6.1. La teoria elitista
La teoria elitista parte dalla ovvia constatazione che “in tutte le società […] esistono due classi di persone: quella dei governanti e quella dei governati” (MOSCA 1994: 50) e dalla convinzione che la società duale risponda “ad un vero bisogno della natura sociale dell’uomo” (MOSCA 1994: 70). Secondo Mosca è inevitabile che una minoranza organizzata assuma il governo delle masse perché, “non ci può essere una organizzazione umana senza una gerarchia, e qualunque gerarchia necessariamente richiede che alcuni comandino e gli altri ubbidiscano e, poiché è nella natura degli uomini che molti di essi amino il comandare e che quasi tutti si adattino ad ubbidire, riesce assai utile una istituzione, la quale dà a coloro che stanno in alto la maniera di giustificare la loro autorità e nello stesso tempo aiuta potentemente a persuadere coloro che stanno in basso a subirla” (1994: 194). E, se così non fosse, “qualunque organizzazione e qualunque compagine sociale sarebbe distrutta” (MOSCA 1994: 51).
Che lo dichiari espressamente o meno, l’elitista è convinto che ci sono due tipi di uomini: gli uomini con capacità superiori (i più forti, i migliori, l’élite, i dominatori), e quelli con capacità inferiori (i più deboli, il popolo, le masse, i dominati). I primi, e solo loro, governano e devono governare, legiferano e devono legiferare, comandano e devono comandare. Tutti gli altri devono essere esclusi dal potere, perché non ne sono all’altezza. Come eterni bambini essi dovranno essere tenuti sotto tutela da qualcuno che decida per loro e stabilisca cosa sia il loro bene e il loro male e come debbano essere felici.
È la logica che gli ebrei hanno eretto a proprio modello ideale politico e che invece è stata respinta dai greci a favore di una divisione delle responsabilità fra tutti i cittadini. Ebbene, la storia insegna che, sotto questo riguardo, gli ebrei sono stati i veri trionfatori. La loro logica, infatti, ha prevalso in tutti i paesi e in tutte le epoche, consacrando l’idea che il popolo è radicalmente incapace di assumersi responsabilità politiche e deve essere guidato da un capo. Quest’idea è stata interiorizzata dalle masse, che si sentono già onorate ed appagate per il solo fatto di essere chiamate in causa nelle periodiche consultazioni elettorali. Ma gli elitisti sanno bene che la DR è solo un’illusione di democrazia e che le elezioni non costituiscono un segno del potere del popolo: esse sono solo una sorta di battaglia senza spargimento di sangue condotta dalle élites dominanti che competono per la conquista del potere.
L’idea di un autogoverno popolare è ritenuta dall’e. una pura fantasia, dal momento che il potere è sempre stato gestito da pochi individui o da pochi gruppi. “Non è il popolo che aspira ad autogovernarsi. La figura del popolo che si autogoverna è, al contrario, una creazione degli intellettuali: serve a legittimare la loro aspirazione ad unificare nelle proprie mani, in una società dominata dalla ragione e dalla scienza, la stessa egemonia che nella società dominata dalla fede si spartirono tra loro chierici e signori feudali” (SETTEMBRINI 1994: 70). Anche secondo Croce, le masse non sono in grado di autogovernarsi e non sanno essere protagoniste della storia: il potere è detenuto solo dalle classi dominanti. Le stesse elezioni non costituiscono un segno del potere del popolo: sono solo una sorta di sondaggio della pubblica opinione da parte dei dirigenti.
Per gli elitisti, in tutte le società si possono distinguere due classi di persone, pochi governanti e tanti governati e, per conseguenza, tutti i governi non sono altro che oligarchie. È la conseguenza ineluttabile dell’ottusità delle masse, che hanno bisogno delle dande per muoversi sicuri. Moses ne è più che certo: “È vero che le masse non pensano. Ma è propria per questa ragione che esse seguono quelli che lo fanno. La guida intellettuale dell’umanità appartiene ai pochissimi che pensano da soli” (1990: 556). Pareto è esplicito: “Lasciando da parte la finzione della «rappresentanza popolare» e badando alla sostanza, tolte poche eccezioni di breve durata, da per tutto si ha una classe governante poco numerosa, che si mantiene al potere, in parte con la forza, in parte con il consenso della classe governata, molto più numerosa” (1920: 444). La forza dei governanti è legata alla loro organizzazione: cento persone organizzate prevarranno su mille persone disunite.
A differenza del marxismo, gli elitisti negano che la storia sia fatta di lotte di classi e affermano che non c’è alcuna alternanza di classi al potere, che la classe dei poveri non ha mai governato, che il popolo non esiste come forza politica, così come non esiste una volontà popolare, che esistono solo dei leader e che la storia “è lotta di minoranze per la supremazia” (SOLA 2000: 12). I leader sono soggetti rapaci che, appoggiati da un’élite di ricchi signori, manipolano le masse, le utilizzano per i propri fini, le condizionano e le sfruttano concedendo loro, a malapena, il minimo per la sussistenza. Essi impongono la propria legge facendo credere alla gente che si tratta della legge migliore possibile nell’interesse di tutti, a volte consentono alle masse di scegliere l’élite da cui vogliono essere governate, ma non riconoscono alle stesse il diritto di chieder conto del loro operato.
Di fatto, i leader si pongono al di sopra delle leggi e governano in modo «irresponsabile», così che non possono essere chiamati in giudizio in caso di fallimentare amministrazione dello Stato o di cattiva condotta. Ciò non vale solo per le monarchie o per i governi antichi: vale anche per le moderne democrazie dove, come sostiene Schumpeter, partendo da una lista di pochi nomi imposti dall’alto, i cittadini eleggono un capo e a lui affidano il governo del paese. Gli elitisti, dunque, “sottoscrivono l’esistenza di un’unica élite del potere, monolitica, omogenea per provenienza e situazione sociale, tendenzialmente irresponsabile e per giunta espressione, diretta o mediata, del potere economico” (SOLA 2000: 228).

6.2. Elitismo e darwinismo sociale
La teoria elitista presenta una spiccata compatibilità con la teoria della selezione naturale elaborata da Darwin, con la quale si presta ad essere integrata. Entrambe, infatti, sostengono che gli esseri viventi competono fra loro e i più forti dominano (e, a volte, eliminano) i più deboli. Una magistrale sintesi fra le due teorie è stata attuata da Herbert Spencer (1820-1903), il quale estende al collettivo quello che Darwin ha proposto in ambito biologico-individuale, dando così origine al cosiddetto darwinismo sociale, che riscuoterà un grande successo e diventerà la filosofia dominante nella seconda metà dell’Ottocento. Da tale filosofia prende origine la dottrina elitista, che è illustrata nelle opere di Mosca, Pareto e Michels, a cavallo tra XIX e XX secolo, e si sviluppa sui seguenti punti fondamentali:
1. Tutti gli uomini competono fra loro.
2. Da questa competizione emergono i più forti (élites), che si appropriano del potere.
3. In ogni tempo e in ogni luogo il potere è concentrato nelle mani di una piccola minoranza e pertanto ogni governo è oligarchico.
4. Le minoranze dominanti sono organizzate o comunque molto meglio organizzate rispetto alla maggioranza subordinata.
5. Il diritto è imposto dalla classe dominante, apparentemente nel nome di un dio o del popolo, in realtà con la forza.
6. La legge è generata dai potenti e serve ai loro interessi.
7. La legge non può essere uguale per tutti, poiché vi sono cittadini di serie A (i membri delle élites) e cittadini di serie B (il cosiddetto popolo). Perciò, tutte le società sono duali.
8. Le élites possono essere chiuse, come avviene nei regimi aristocratici e autocratici, o aperte, come è il caso delle democrazie, ma sono sempre ristrette.

6.3. Le ragioni di un successo
L’elitismo può essere considerato una delle teorie politiche di maggior successo di tutti i tempi, e i suoi sostenitori sono innumerevoli: Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels costituiscono solo la punta dell’iceberg. La posizione degli elitisti appare in grande spolvero anche ai nostri giorni e, infatti, perfino i più illustri pensatori di fede democratica, come N. Bobbio (1991: 47-9), G. Sartori (1993: 295) e D. Settembrini (1994: 70), continuano a ritenere che il popolo sia incapace di autogovernarsi e che non si possa andare più in là della democrazia rappresentativa. Lo stesso fa Salvador Giner, uno dei massimi sociologi spagnoli, secondo il quale la democrazia diretta è un “sistema auspicabile ma difficile da mettere in pratica” (1998: 71). Ora, questa sfiducia generale non fa che favorire e rafforzare le posizioni elitiste.
La maggior parte dei cittadini non s’intende di politica e molti non si preoccupano nemmeno di esercitare il proprio diritto di voto? Va bene così, ripetono gli elitista con Platone. È bene che il popolo non prenda alcuna iniziativa: se lo facesse sarebbe un disastro. La politica, diceva Platone, è roba da filosofi. Da parte loro, gli elitisti affermano: «la politica è roba da professionisti». Cambiano le parole, ma la sostanza è la stessa. In entrambi i casi, infatti, più che di democrazia dovremmo parlare di oligarchia: “la teoria elitista sostiene che la democrazia può funzionare e sopravvivere solo nelle forme di una oligarchia de facto di politici professionisti e burocrati; che la partecipazione popolare deve esserci solo in occasione delle elezioni, in altri termini che un’apatia politica è un segno di salute” (Finley 1972: VII).

6.4. Questioni aperte
Rimangono aperte alcune questione. È proprio vero che i governanti siano i migliori? È proprio vero che il popolo sia incapace di autogovernarsi? Gli elitisti non appaiono interessati a siffatte questioni e danno per scontato che chi governa ha già dimostrato di avere sbaragliato la concorrenza e di essere il più forte. Essi non si pongono la domanda se il governante sia veramente il più meritevole o se tutti i cittadini comuni siano veramente incapaci di assumersi responsabilità politiche. L’elitista non si chiede «chi deve comandare?», dando per scontato che comandano i migliori, né s’interroga su un possibile governo del popolo, dal momento che, secondo lui, in tutti i tipi di governo, comanda sempre il più forte. In definitiva, gli elitisti “tendono a dare una definizione molto ristretta della democrazia che, nel migliore dei casi, è considerata come un mezzo per scegliere coloro che prendono le decisioni e per frenare i loro eccessi” (HELD 1997: 221).

6.5. Limiti
Gli elitisti sono pragmatici e descrivono in modo fedele ciò che si vede, allo stesso modo di una macchina fotografica che immortala la scena per come appare da un certo punto di osservazione. Quello che in loro difetta è lo spirito critico, la voglia di chiedersi se ciò che essi vedono potrebbe cambiare se cambiano le condizioni o il punto di osservazione. L’elitista si affretta a giustificare l’apparenza, senza indugiare a chiedersi il perché delle cose che vede, senza argomentare adeguatamente il suo giudizio, ovvero senza preoccuparsi di dimostrare né che i dominanti sono anche i migliori, né che le masse sono veramente incapaci.

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