mercoledì 26 agosto 2009

12. Comunismo

Il comunismo è fratello gemello del socialismo e si può comprendere solo partendo da questo. Il termine viene usato da Marx ed Engels nel loro Manifesto, per distinguerlo proprio dal socialismo che, a loro giudizio, si è imborghesito allontanandosi dalla realtà delle fabbriche.

12.1. Socialismo e comunismo
Sostenuta da pensatori, come Owen, Saint-Simon, Fourier e Proudhon, e avendo radici che affondano nella filosofia cinico-stoica e nel cristianesimo primitivo, l’ideologia socialista si diffonde intorno alla metà del Settecento per affermarsi in modo concreto dopo la caduta di Napoleone, quando il campo socio-politico è occupato da due principali correnti: quella dei conservatori, che sostengono il capitalismo, e quella dei riformisti, che si distinguono in individualisti o anarchici, e anti-individualisti o social-comunisti.
Il socialismo auspica uno Stato forte e centralizzato, che disponga dei mezzi di produzione, programmi le attività economiche e la distribuzione dei posti di lavoro, e attui misure a favore delle classi più svantaggiate al fine di contenere le differenze di censo. In altri termini, lo Stato socialista dovrà essere presente e intervenire massicciamente nella vita sociale per pianificare le attività economiche, garantire la piena occupazione, tutelare le persone più deboli e creare le condizioni di un forte egualitarismo. A livello generale, il socialismo comprende un insieme eterogeneo di dottrine che pongono in cima alla scala dei valori e privilegiano “finalità e comportamenti collettivi contro l’esasperato utilitarismo individuale o di gruppo proprio del mercato capitalistico” (DEGL’INNOCENTI 1998: 63).
Un tema centrale nel pensiero socialista è costituito dall’istituto della proprietà privata, che è visto in modo diverso dai diversi pensatori. Accanto a forme di socialismo estremo, che vuole l’abolizione della proprietà privata (Babeuf, Blanqui, Cabet, Owen), ve ne sono altre che si accontentano di una consistente limitazione della proprietà stessa (Fourier, Proudhon) e altre ancora che ne auspicano una profonda riforma in senso collettivo (Saint-Simon, Marx), anche se non mancano posizioni di tipo liberale, che legittimano pienamente la proprietà, sia pure con una particolare attenzione allo Stato sociale.
Anche il comunismo è una dottrina politica fondata sulla centralità dello Stato: i mezzi di produzione e le attività produttive sono tutti di proprietà dello Stato, l’iniziativa individuale è ridotta al minimo, il pluralismo è debole, la proprietà privata è collettiva, le differenze di status sociale dei cittadini sono minime. Per il comunismo l’eguaglianza rappresenta il valore supremo cui tendere e la proprietà collettiva lo strumento imprescindibile per una vita sociale armoniosa. “Da ciascuno secondo le sue capacità e a ciascuno secondo i suoi bisogni”, questo è il principio sommo al quale si ispira il comunismo.
“L’idea centrale del comunismo è che i meccanismi economici determinati dalla proprietà privata, i rapporti sociali che ne derivano, le istituzioni politiche che li regolano e gli ordinamenti giuridici che li tutelano, producono necessariamente una strutturale disuguaglianza fra gli uomini, l’oppressione dei molti e il privilegio dei pochi; che l’eguaglianza costituisca il valore e lo scopo supremo; che per realizzare quest’ultimo occorra un sovvertimento totale delle basi della società, il quale introduca la proprietà collettiva” (SALVADORI 1992: 188-9). Benché ritenga che la proprietà privata costituisca “la matrice di tutti i mali sociali” (SALVADORI 1992: 189), il comunismo non si oppone ad ogni tipo di proprietà privata, ma solo a quella che va oltre le effettive capacità di produzione, di controllo e di utilizzo da parte del proprietario. Secondo Marx, “ciò che distingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese” (da GRUPPI 1969: 194), ossia la proprietà dei mezzi di produzione, di cui si servono pochi ricchi per sottomettere e sfruttare la maggioranza dei poveri.

12.2. Storia del social-comunismo
Comunismo e socialismo nascono insieme nel XVIII secolo in risposta ai problemi sociali posti dalla rivoluzione industriale e, per diversi decenni, i due termini sono usati in modo intercambiabile. La frattura fra le due ideologie si verifica in due occasioni: la prima volta in Germania (1914), la seconda volta in Russia (1921).
Il c. si è imposto all’attenzione mondiale come una valida forma di governo, alternativa al capitalismo, a partire da Lenin, che voleva fare della rivoluzione bolscevica il modello politico egemone a livello planetario. Il piano di Lenin dovrebbe svolgersi in due fasi: la prima fase è quella della cosiddetta dittatura del proletario, la seconda fase quella della democrazia socialista o popolare. In realtà, non si è verificata né l’una, né l’altra cosa, ma piuttosto una dittatura sul proletariato operata dal partito unico comunista e un autoritario regime stalinista.
“Nella cosiddetta democrazia popolare comunista – è triste dirlo – il popolo e la libertà sono stati più assenti di quanto non lo siano stati nella democrazia borghese” (SCHIAVONE 2001: 285). Per di più, il comunismo non ha promosso uno sviluppo economico e un benessere paragonabili a quelli del capitalismo. Al contrario, nei paesi in cui è stato al governo, il socialismo ha consentito un elevato indice di sviluppo umano, una buona qualità dei servizi sociali e un minore livello di disuguaglianze, anche se non ha saputo modificare sostanzialmente gli equilibri di classe, che sono rimasti quelli tipici delle repubbliche liberali.
Nel 1989 il sistema comunista sovietico è imploso e, due anni dopo, l’URSS si è dissolta, lasciando il posto a una Comunità di Stati indipendenti (CSI), che hanno mostrato una tendenza ad occidentalizzarsi. Nemmeno gli altri modelli comunisti hanno dato prova di poter reggere il confronto con le società capitalistiche o di poter perseguire lo stesso livello di benessere per i cittadini, e così il comunismo si è eclissato dal panorama politico.

12.3. I sistemi comunisti
Non esiste un unico modello politico comunista, ma una quantità di varianti interpretative dello stesso. In questa sede mi limito a fare un cenno ai sistemi sovietico e italiano.
Il modello comunista sovietico si costruisce intorno al pensiero di Marx, Engels, Lenin e pochi altri. Marx è convinto: 1) che l’uomo non può essere un atomo (gli atomi non hanno bisogni), che l’individuo isolato è un’invenzione della teoria utilitaristica, che non c’è individuo che non sia stato generato e plasmato da una società, che è proprio il suo carattere sociale che differenzia l’uomo dagli animali; 2) che “la storia non è altro che il processo in cui gli uomini creano e soddisfano continuamente i loro bisogni” (GIDDENS 1998: 57); 3) che la proprietà privata non deriva da uno stato naturale, ma è un’acquisizione culturale; 4) che “le classi cominciano a comparire soltanto quando il sovrappiù derivante dalla ricchezza appropriata privatamente diventa sufficiente perché un gruppo che si riproduca per cooptazione si possa separare nettamente dalla massa dei produttori” (GIDDENS 1998: 63); 5) che “tutte le classi dominanti rivendicano carattere di universalità all’ideologia che legittima la loro posizione di dominio” (GIDDENS 1998: 89); 6) che il potere economico sta alla base di quello politico.
Marx è, inoltre, convinto: 1) che lo sfruttamento capitalistico rappresenta una fase necessaria dello sviluppo sociale, 2) che la rivoluzione socialista potrà avere inizio solo quando il capitalismo avrà raggiunto la sua maturità, ossia allorché le classi medie saranno scomparse e si troveranno di fronte un piccolo numero di grandi capitalisti e la grande massa dei proletari, 3) che, una volta iniziata, la rivoluzione assumerà dimensioni internazionali e si realizzerà in due fasi: nella prima, si instaurerà la dittatura del proletariato che, in fondo, altro non è che una forma di oppressione della classe proletaria su quella borghese; nella seconda, si giungerà all’eliminazione delle classi sociali e all’affermazione della società senza proprietà e senza Stato, dove il protagonista sarà l’individuo, ormai reso maturo grazie anche all’emancipazione religiosa, e la formula di governo quella DD. Marx, dunque, “aveva individuato nella democrazia diretta con mandato imperativo la nuova forma di governo che avrebbe dovuto sorgere dalle ceneri della democrazia rappresentativa degenerata in governo personale” (BOBBIO 1999: 53).
Nelle intenzioni di Lenin e Trotskij, la rivoluzione bolscevica dovrebbe estendersi a tutto il mondo o, almeno, ad un gran numero di paesi, creando una nuova cultura e un nuovo stile di vita all’insegna dei princìpi comunisti. Se la rivoluzione si limitasse alla Russia e ai suoi paesi satelliti, secondo i suddetti, essa andrebbe incontro a degenerazione e fallimento. Tuttavia, quando i fatti dimostrano che la rivoluzione internazionale è un obiettivo irrealistico, Stalin provvede a trasformare il movimento bolscevico leninista in un’ideologia nazionalista e attua: 1) una rigida pianificazione statale dell’economia, 2) la collettivizzazione forzata delle terre, 3) una repressione poliziesca degli oppositori, 4) un’accentuata militarizzazione dell’industria, 5) l’accentramento di tutti i poteri nelle proprie mani.
Alla ragione individuale, il c. sostituisce la ragione del collettivo. Il risultato ultimo è il gigantismo del partito che tutto domina il rimpicciolimento del singolo cittadino. I valori che contano, per il c. (l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà, il coraggio, la generosità, l’altruismo, ecc.), non nascono dall’individuo ma dalla storia e, precisamente, dal partito che ne interpreta il senso. Questi valori vengono dall’alto, sono sovraindividuali. Per il c. è il partito che opera la distinzione fra bene e male e stabilisce il codice morale.
I princìpi del comunismo appaiono chiaramente enunciati nella Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1936) e sono sostanzialmente due. Il primo è legato all’idea che la proprietà privata costituisca “la matrice di tutti i mali sociali” (SALVADORI 1992: 189). “L’idea centrale del comunismo è che i meccanismi economici determinati dalla proprietà privata […] producano necessariamente una strutturale disuguaglianza fra gli uomini, l’oppressione dei molti e il privilegio dei pochi” (SALVADORI 1992: 188). Ecco allora la necessità di abolire la proprietà privata degli mezzi di produzione (art. 4), nella speranza che ciò sia sufficiente ad eliminare lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo (art. 4). Il secondo principio comunista è rappresentato dal lavoro: «Chi non lavora, non mangia» (art. 12). Manca nel comunismo il riconoscimento del diritto incondizionato ad una vita dignitosa dell’individuo.
Lo Stato comunista sovietico controlla l’economia e ogni forma di comunicazione, distribuisce il lavoro, fissa il livello retributivo e vigila affinché nessuno sia privo del minimo per la sussistenza. La società comunista “deve mantenere tutti i suoi membri, indipendentemente dalla produzione totale del lavoro” (COLE 1976: 182). Essa, allora, annovera tra i suoi scopi quelli di “dare a tutti i suoi membri eque possibilità di vita, proteggerli dalle sofferenze non necessarie, e aiutare con dolcezza coloro che soffrono per proprie colpe” (COLE 1976: 184). Il risultato è che il livello di disoccupazione è fra i più bassi, anche se ciò non vuol dire che la gente sita bene.
“In Unione Sovietica le più grossolane offese contro lo spirito umano sono comuni: censura e controllo del pensiero, processi intentati in modo fraudolento sulla base di false accuse, intimidazione costante atta ad avvilire ogni cittadino che altrimenti sarebbe capace di pensare con la propria testa, un mondo semisegreto di privilegi speciali per l’élite di un sistema che si professa ugualitario ma non fornisce nemmeno un’assistenza medica adeguata alla popolazione, alcolismo di massa accompagnato da diffuso teppismo. E la lista è tutt’altro che conclusa” (LINDBLOM 1979: 264).
Il modello comunista italiano traspare dal programma col quale il Pci si presenta agli italiani nel 1946, alla vigilia dell’elezione dell’Assemblea costituente. Il Pci propone di fondare “una Repubblica democratica di lavoratori del braccio e della mente, retta con regime parlamentare rappresentativo, nel quale siano garantite le difese e le libertà fondamentali del cittadino, la libertà di parola, di coscienza, di stampa, di culto, di associazione e propaganda politica, sindacale e religiosa, sia soppressa ogni forma di inferiorità politica e giuridica della donna, sia aperta la strada alla realizzazione del diritto di ogni cittadino al lavoro, al riposo, alla istruzione e alla assicurazione sociale. Per la piena riconquista e per la difesa della indipendenza nazionale, il partito comunista propugna una politica estera di pace, di rispetto dei diritti di tutte le nazioni, di organizzata collaborazione con tutti i popoli e in particolare con quelli confinanti. […]. Rivendica per i comuni e altri enti locali piena autonomia amministrativa […]. Nel campo industriale il partito comunista propone la nazionalizzazione dei grandi complessi monopolistici, delle grandi banche e delle compagnie di assicurazione, un inizio di pianificazione nazionale e l’istituzione di un sistema di controllo nazionale della produzione […]. Nel campo agricolo il partito comunista propone la liquidazione della grande proprietà assenteistica (latifondo), la limitazione della grande proprietà capitalistica […], la difesa conseguente della piccola e media proprietà” (TOGLIATTI 1997: 98-101). Ne risulta l’immagine di un Partito orientato a distribuire la terra ai contadini, a far intervenire lo Stato nei settori produttivi del paese e ad attuare una politica a favore delle classi più deboli (welfare), ma, nello stesso tempo, rispettoso dei diritti democratici dei cittadini, al pari di un qualsiasi partito liberale.

12.4 Il comunismo oggi
Che ne è oggi del comunismo? Si tratta di una dottrina davvero finita o che può avere ancora un qualche significato per noi? Le maggiori critiche che si continua a muovere nei confronti del c. non riguardano tanto l’analisi economica marxiana, che sembra corretta, quanto le previsioni per il futuro fatte da Marx, che non hanno trovato riscontro, anche se ciò può essere, almeno in parte, addebitato a fattori esterni alla dottrina marxiana. Tra l’altro, Marx aveva previsto che i salariati sarebbero stati sempre più sfruttati fino ad essere costretti a vivere in miseria. Se questo non è avvenuto lo si deve anche al fatto che, grazie all’operato delle organizzazioni sindacali, all’introduzione di alcuni correttivi, come le leggi antitrust, e al welfare state, il capitalismo puro oggi non esiste in nessuna parte del pianeta. Marx aveva anche predetto che il socialismo avrebbe invertito i rapporti, ponendo al primo posto i valori umani e al secondo posto quelli degli impianti. Oggi vediamo invece che i paesi a regime marxista hanno realizzato condizioni economiche per i salariati peggiori che nei paesi capitalistici. Anche in questo caso, si può osservare che, in nessun paese, i princìpi del marxismo sono stati messi in pratica in modo corretto e coerente. Marx prevedeva inoltre l’affermazione della dittatura del proletariato, che doveva essere una sorta di democrazia diretta, il cui principale compito sarebbe dovuto essere quello di abbattere il predominio borghese e, successivamente, una società senza classi e senza Stato, basata sulla uguaglianza di tutti e sulla comunità dei beni (comunismo), dove lo Stato si sarebbe limitato a svolgere funzioni amministrative e il soggetto centrale della società sarebbe stato l’individuo pienamente sviluppato in tutte le sue potenzialità. Sotto questo aspetto, i fatti hanno dimostrato che le previsioni di Marx non si sono realizzate e oggi sono molti a credere che esse non siano realizzabili, e nemmeno desiderabili.
Marx ha anche prestato il fianco alle critiche circa la sua concezione della storia, che è di derivazione hegeliana (la storia avrebbe una sua propria personalità, delle sue proprie regole e un suo proprio sviluppo, che sono indipendenti e sovraordinati alla sfera individuale). Secondo Weber, i princìpi espressi da Marx non hanno valore di legge universale e valgono solo in un particolare periodo storico e in una particolare cultura. Sbaglierebbe poi Marx, prosegue Weber, a concepire lo sviluppo storico esclusivamente in chiave economica, perché ci sono altri fattori che influenzano la storia, come la religione, il cui carattere non è primariamente economico.
Al di là dei limiti dell’ideologia socialista e dell’esperienza storica del c., resta valida l’analisi economica marxiana e tutti i problemi che ruotano intorno ad essa e ai quali non è stata trovata ancora una soluzione. Il comunismo storico è fallito, certo, ma non per questo è venuta meno la necessità di trovare risposta agli interrogativi che esso ha sollevato. Ed ecco allora perché, ancora oggi, il marxismo non può considerarsi morto. Su di esso continuano a sussistere opinioni del tutto contrastanti: se da una parte c’è chi lo considera la teoria più perniciosa che sia mai stata proposta, altri, i neomarxisti, continuano a difenderlo, dicendo che non è mai stato messo alla prova in modo corretto.
Il c., dunque, presenta chiaroscuri, ma non è un «buco nero», un bubbone da estirpare; ha certamente degli aspetti positivi che potrebbero ancora tornare utili per una eventuale nuova esperienza storica. Forse il c. non è morto, e forse potrebbe ritornare a nuova vita. Tale è il punto di vista del neomarxismo.

12.5. Il Neomarxismo
Allo stesso modo degli elitisti, i neomarxisti, come R. Miliband, N. Poulantzas e Ch. Lindblom, sostengono che il potere politico è nelle mani di pochi ricchi, ma, a differenza degli elitisti, essi ritengono che ciò non sia né bene, né giusto. Secondo il N., esistono due poteri (il politico e l’economico), che presentano questa importante differenza: mentre i politici devono dar conto all’elettorato, che periodicamente è chiamato ad esprimere la propria opinione attraverso il voto, gli imprenditori non solo non hanno alcuna responsabilità nei confronti del popolo, ma, dal momento che essi danno lavoro a molti cittadini, vengono considerati socialmente benemeriti e lo Stato è indotto a tutelarli e a incentivarli. Così facendo, lo Stato cessa di essere arbitro imparziale fra gli interessi di tutti i cittadini e finisce per privilegiare il mondo degli affari. Ne consegue che i ricchi non solo condizionano la politica, ma vengono anche da questa premiati, diventando sempre più ricchi e potenti.

12.6. Vantaggi e limiti
Il principale vantaggio del c. può essere indicato nel fatto che, almeno in teoria, esso si basa su un’analisi economica ancora valida e che il suo ideale di giustizia è compatibile con politiche di tipo democratico.
Il principale limite deriva dal modo in cui i governi comunisti hanno interpretato concretamente lo spirito comunista: in pratica, essi hanno finito per assumere un atteggiamento di tipo paternalistico e, col pretesto di dover badare al bene dei cittadini, hanno finito anche per negare i diritti democratici e per guidare i rispettivi paesi in modo autoritario, svilendo i valori di giustizia sociale contenuti nei loro programmi politici.

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